Killer da dinosauro

Nell’estate del 1994 lo spettacolare impatto con Giove dei frammenti della cometaShoemaker-Levy 9ha permessoagli astronomi di studiare per la prima volta in diretta un eventoricorrente nella storia del sistema solare: l’impatto dipiccoli corpi interplanetari vaganti con un pianeta. Dalla crosta rovente di Mercurio allesuperfici ghiacciate delle lune di Urano e Nettuno, la presenza dei craterida impatto testimonia il processo di “selezione naturale’’ che permiliardi di anni ha permesso ai corpi maggiori del nostro sistema di spazzarvia tutti i piccoli corpi residui asteroidi o comete sopravvissuti allafase di formazione del sistema stesso. Anche la Terra tutti gli anni inglobamateriale extraterrestre per migliaia di tonnellate: sebbene gran parte di questo materiale si presenti sotto forma di polveri, di granelli millimetricicome quelli che formano le “stelle cadenti’’, o di frammentirocciosi riconoscibili dopo la caduta come meteoriti, di tanto in tantosi verificano anche impatti di corpi di dimensioni dell’ordine del chilometro(come i frammenti della cometa Shoemaker-Levy 9).
Collisioni di questo tipo sono rare, ma possono provocare vere e propriecatastrofi: nel caso del nostro pianeta la velocità tipica di collisioneè di 20 km/s, e un oggetto del diametro di un chilometro libera quasiistantaneamente un’energia esplosiva pari a quella di 50.000 Megaton, ossiadi 50 miliardi di tonnellate di tritolo -comparabile a quella complessivadi tutte le bombe nucleari costruite negli ultimi 50 anni dall’uomo. E’un pericolo di cui negli ultimi anni i si è parlato molto nei media,spesso cadendo negli opposti errori di alimentare assurdi allarmismio di negarne l’esistenza in modo aprioristico.

Il Meteor Crater e Tunguska

Anche se non mancano i precedenti sin dall’antichità, l’idea checatastrofi di origine extraterrestre possano aver giocato, e continuare a giocare, un ruolo importantenella storia del nostro pianeta si è affermata soltanto a partiredall’inizio del nostro secolo, grazie soprattutto a due eventi concomitanti.Il primo è stato la scoperta, durante l’esplorazione del West americano,di uno strano cratere nel deserto dell’Arizona settentrionale. Del diametrodi 1200 metri, profondo 250 metri, situato in una zona pianeggiante notaper il ritrovamento di numerose meteoriti metalliche, il cratere apparivamolto diverso da quelli che si formano in seguito a fenomeni di tipo vulcanico.Faceva piuttosto pensare a un’origine legata all’impatto di un grosso corpoextraterrestre, un oggetto grande una cinquantina di metri che avrebbe provocatoun’esplosione di parecchi Megaton. Benché a quasi tutti i geologidell’epoca questa spiegazione sembrasse fantascientifica, un ricco avvocatoe ingegnere minerario di Philadelphia, Daniel Moreau Barringer, investìmezzo milione di dollari (dell’epoca) per comprare l’intero cratere e tentare-peraltro con poca fortuna- di estrarvi i minerali pregiati spesso abbondantinelle meteoriti. L’idea era tutt’altro che assurda: una frazione significativadi tutto il nickel estratto nel mondo per esempio proviene dalle vicinanze di un altrocratere da impatto, quello di Sudbury in Canada. Barringer, tuttavia, avevaerroneamente supposto che la forma circolare del cratere fosse il segno di un urtoin direzione quasi perpendicolare al terreno, e quindi effettuò numerosisondaggi direttamente sotto il fondo del cratere; in realtà l’impatto,risalente a circa 50.000 anni prima, era avvenuto in direzione fortemente obliqua,e inoltre il materiale extraterrestre si era in gran parte istantaneamentevaporizzato e disperso nel corso dell’immane esplosione. Peraltro la tesidi Barringer, a lungo ritenuta da molti accademici nient’altro che la fantasiadi un eccentrico, fin dagli anni ‘20 era stata presa in considerazione daAlfred Wegener, il padre della teoria della deriva dei continenti.
Studiando la morfologia dei crateri lunari e realizzando in proprio esperimentidi impatto su piccola scala, Wegener si convinse dell’origine extraterrestredel cratere di Barringer (poi battezzato Meteor Crater). Ma il suo lavoroin proposito fu riscoperto solo negli anni cinquanta, quando divennechiara la somiglianza fra il Meteor Crater ed i crateri formati dalle esplosioninucleari sperimentali che venivano realizzate dai militari americani e sovieticiin quel periodo.
Il secondo evento che segnò una svolta, per quanto non immediata,delle conoscenze sul ruolo degli impatti fu l’esplosione di Tunguska. Lascena è in Siberia, nel paesaggio di taiga e grandi foreste dell’Asiacentrale. Alle 7:30 del 30 giugno 1908 improvvisamente una colonna di fuocoapparve dal cielo da est; una meteora accecante come il Sole discese silenziosamentefinché, a una quota di parecchi chilometri, si verificò un’immaneesplosione. La foresta venne abbattuta per migliaia di chilometri quadrati,con gli alberi privati dei rami e sparsi per terra allineati come fiammiferi ad indicare la direzione dell’onda d’urto. Non ci furono vittime, perchéper fortuna la regione era disabitata (ed anche così poco agevoleda raggiungere che essa venne esplorata per la prima volta oltre 20 anni più tardi). Sebbene molte ipotesi esotiche siano state proposte per spiegarequesto catastrofico evento (dall’impatto con la Terra di un minuscolo buconero all’esplosione di un’astronave extraterrestre), molte ricerche effettuatenegli ultimi decenni hanno indicato che la causa dell’esplosione di Tunguska è stata l’urto contro gli strati densi dell’atmosfera terrestre di un frammentodi asteroide o cometa, grande forse un centinaio di metri. Recentemente,una conferma diretta di questa ipotesi è arrivata dalle analisi dilaboratorio dei campioni di legno degli alberi sopravvissuti alla catastrofe,raccolti da una spedizione italo-russa: molte particelle microscopiche incorporatenella resina prodotta nel 1908 sembrano chiaramente di origine extraterrestre.Nel mese di luglio un convegno internazionaleorganizzato da G. Longo, dell’Università di Bologna, uno dei partecipantia questa spedizione ha fatto il punto sulle conoscenze attuali circal’evento di Tunguska ed il corpo che lo provocò.

Il ruolo degli impatti

Oggi i ricercatori ne sanno molto di più sul ruolo degli impattiextraterrestri nella storia del nostro pianeta (e anche degli altri corpidel sistema solare, che ne hanno conservato meglio le tracce, come la Luna).Anche se tre quarti della superficie terrestre sono coperti da oceani,e se anche sui continenti l’erosione tende a cancellare rapidamente i craterida impatto (in particolare quelli di minori dimensioni), oggi i geologine hanno identificati circa 150 con diametri variabili tra circa uno (come il Meteor Crater) a oltre i 100 chillometri.
Negli ultimi quindici anni nuove scoperte hanno anche indicato che i maggiori tra questi impatti hanno probabilmente causato vere e proprie catastroficlimatiche ed ecologiche, come quella del cosiddetto limite K-T che 65 milioni di anni fa (soltanto l’1,5% dell’età del nostro pianeta)provocò l’estinzione in massa dei dinosauri e di moltissime altrespecie viventi. Di recente la scoperta dell’enorme cratere di Chicxulub(oltre 200 chilometri di diametro), sepolto sotto un chilometro di sedimenti fralo Yucatan ed il Golfo del Messico e di età pari a 65 milioni dianni, ha fornito una prova molto convincente a favore del rapporto di causaed effetto tra grandi impatti e catastrofi climatiche ed ecologiche nellastoria della Terra. In particolare l’evento del limite K-T venne provocatoda un corpo interplanetario vagante – asteroide o cometa – grande una decinadi chilometri che colpì il nostro pianeta con l’energia di 100 milionidi bombe H, e con il risultato di alterarne improvvisamente il clima, causareestesissimi incendi e avvelenarne l’atmosfera.
Grazie a questa scoperta, oggi sono molti i geologi ed i paleontologiche non considerano più gli impatti extraterrestri come una sorta di deusex machina vagamente fantascientifico invocato solo per spiegare eventialtrimenti enigmatici, ma come uno dei processi fondamentali (per quantoessenzialmente casuale) che hanno plasmato l’evoluzione della Terra e dellabiosfera. Sono così sorte una serie di nuove domande: quanto spessoaccadono queste catastrofi? Ce ne sono state altre nella storia della Terra? E per il futuro, conosciamo i corpi celesti potenzialmente “pericolosi’‘e saremmo in grado di prevedere e prevenire un’altra catastrofe? Quantoal passato, ancora non ci sono risposte sicure. Sembra certo che altri impattigiganti siano avvenuti a intervalli di diverse decine di milioni di anni,ma nessuno tra quelli identificati fino ad ora sembra aver raggiunto le dimensioni e provocato le conseguenze di quello che ripulì la Terra dai dinosauri.
Molte ricerche sono attualmente in corso, in particolare in alcune zone degli Appenniniitaliani che sembrano aver conservato un ricordo geologico particolarmentechiaro della storia della Terra negli ultimi 100 milioni di anni. Per quantoriguarda il futuro, sappiamo per certo che impatti di comete e asteroidipiù piccoli ma pur sempre pericolosi sono molto più probabili,e perciò quasi certamente avverranno molto prima, rispetto a quelliriconducibili a corpi grandi 10 chilometri o più. Proiettili di questo tipo,grandi una cinquantina di metri, colpiscono la Terra una volta ogni qualchesecolo e causano disastri locali, che per fortuna hanno poche conseguenze al di là di qualche centinaio di chilometri di distanza dal puntodell’urto. Ma sappiamo anche che ogni 200.000 anni circa si verifica unimpatto con un asteroide o con una cometa di dimensioni superiori a un chilometro, chepotrebbe influenzare il clima globale in maniera seria.
Ognuno di noi ha quindi all’incirca una probabilità su 5000 di assistere nel corso della sua vita a un evento del genere: poco, ma nonabbastanza per lasciarci del tutto tranquilli, tanto è vero che, comevedremo tra poco, a livello internazionale stanno per essere avviate intensericerche per scoprire rapidamente una frazione elevata dei potenziali proiettili di dimensioni chilometriche (solo il 5%dei quali sono oggi noti agli astronomi).Lo studio scientifico di questo tipo di corpi sta procedendo rapidamentecon tutte le tecniche astronomiche utili, e oggi cominciamo ad avere unquadro abbastanza dettagliato della loro natura, origine ed evoluzione.
Quanto agli oggetti di dimensioni superiori, tra gli asteroidi, il maggiore cheoggi può avvicinarsi alla Terra (beninteso, senza pericolo d’impatto in un futuro dell’ordine delle migliaia di anni) raggiunge circa gli 8 km, ed èquindi più piccolo di quello che cadde 65 milioni di anni fa. Nonè escluso che grosse comete, oggi sconosciute perché troppolontane dal Sole, possano avvicinarsi al nostro pianeta: abbiamo giàricordato il recentissimo impatto della cometa Shoemaker-Levy 9 con ilpianeta Giove, seguito ad un primo incontro ravvicinato in cui la cometaera stata disgregata in una ventina di grossi frammenti. Tuttavia, quasitutti gli astronomi sono convinti che dal punto di vista statistico le grossecomete sono troppo rare e le loro orbite geometricamente inadatte percontribuire in modo importante al pericolo-impatti nel caso della Terra.
Possiamo quindi concludere che l’evento di 65 milioni di anni fa fu in qualchemodo anomalo? Oggi sappiamo che non è vero. Inrealtà un potenziale futuro proiettile gigante è noto findalla fine del secolo scorso: si tratta dell’asteroide 433 Eros, scopertonel 1898 e grande una ventina di km, ossia il doppio dei 10 km stimati peril “killer’’ dei dinosauri.

Eros: il prossimo “asteroide-killer”?

Finoa poco tempo fa, Eros aveva attratto poca attenzione perché la suaorbita attuale non si avvicina moltissimo a quella terrestre: la distanzaminima fra i due corpi celesti non può infatti scendere al di sottodei 20 milioni di km circa -poco su scala astronomica, ma abbastanza perescludere che un impatto con il nostro pianeta possa verificarsi per almeno100.000 anni nel futuro. D’altra parte, le orbite degli asteroidi come Erosevolvono lentamente nel tempo a causa dell’attrazione gravitazionale deipianeti (soprattutto dei giganti Giove e Saturno e del piccolo, mapiù vicino, Marte), e quindi non si può escludere che nelfuturo lontano le cose potranno cambiare. Questo è stato l’argomento che hamotivato P. Michel e Ch. Froeschlé; dell’Osservatorio di Nizza, incollaborazione con me, ad intrapendere uno studio dettagliato dell’evoluzionefutura dell’orbita di Eros.
Un grosso ostacolo viene dal fatto che orbite di questo tipo sono fortementecaotiche: come nel famoso “effetto farfalla’’ (“una farfalla chebatte le ali in Cina causa l’anno dopo un uragano nei Caraibi’’) la piccolama inevitabile incertezza sulle loro caratteristiche attuali porta a esiticompletamente diversi nel lontano futuro. Abbiamo superato questo problemastudiando al calcolatore l’evoluzione non di un solo Eros, ma diben 8 “gemelli’’ dell’asteroide, praticamente indistinguibili oggima dotati di diversi futuri su scale di tempo di milioni di anni, e poianalizzato i risultati in modo statistico. Le conclusioni di questo lavoro,pubblicate su Nature del 25 aprile 1996, sono facili da riassumere.Come ho già anticipato, tutti i gemelli Eros si terranno ben allalarga da noi per oltre 100.000 anni. Tuttavia, entro 2 milionidi anni l’orbita di 3 gemelli su 8 sarà trasformata in modo tale da poterincrociare quella terrestre, e quindi c’è una probabilitàdell’ordine del 50% che il vero Eros tra qualche milione d’anni diventirealmente pericoloso.
Uno degli Eros gemelli, nell’evoluzione simulata al computer, in effetticollide contro la Terra dopo 1,1 milioni di anni: ma un’analisi statisticadei risultati delle simulazioni ha mostrato che in realtà un eventodel genere è poco probabile in tempi tanto brevi, e che un impattodi Eros con la Terra avrà una probabilità significativa diverificarsi solo su tempi di 100 milioni di anni o più. Quindi nessunaconclusione allarmistica è giustificata: basti pensare che la specieHomo sapiens esiste da non più di 100.000 anni circa, e chepochissime specie viventi resistono più di 10 milioni di anni primadi estinguersi naturalmente lasciando posto ad altre sul palcoscenico dell’evoluzione.Credo che neppure lo scrittore di fantascienza più immaginifico possa prevedere come saranno i nostri eventuali discendenti fra unmilione di anni, e tanto meno come reagiranno alle sfide che l’ambienteterrestre e cosmico porrà alla loro esistenza. Tuttavia, lo studiodell’evoluzione orbitale di Eros conferma l’ipotesi che, nella storia tantopassata che futura del nostro pianeta, i cataclismi provocati dagli impattiextraterrestri siano una realtà molto concreta, con cui gli studiosidella geologia e dell’evoluzione biologica sono costretti a fare i conti. Oggi possiamodire di conoscere almeno un esempio concreto di corpo celeste che in unlontanissimo futuro potrebbe dare un’altra drammatica svolta alla storiadel nostro pianeta. Eros è interessante anche perchè sarà il primo asteroide potenzialmente pericoloso dicui presto conosceremo in dettaglio le proprietà fisiche e morfologiche.Ben prima della visita di Eros sulla Terra, noi terrestri gli stiamo andando incontro con una missione spaziale: la sonda-robotNEAR della NASA, lanciata lo scorso mese di febbraio. Fra 3 anni si metterà in orbita intorno ad Eros e ne produrràuna mappa completa, raccogliendo anche molti altri dati sulla sua strutturae composizione. Se i nostri lontanissimi discendenti dovranno adottare misure per evitare un impatto con Eros, forse si ricorderanno che, in questoultimo scorcio del ventesimo secolo, per la prima volta è stato identificato il loro problema e vista da vicino la causa.

La ricerca dei corpi pericolosi

Per oggetti un po’ più piccoli di Eros, ma sempre in grado di provocareproblemi a livello globale, c’è ancora una grossa lacuna nella nostracapacità di comprendere e prevedere il verificarsi degli impatticontro il nostro pianeta: i corpi celesti che potrebbero esserne responsabili sono ancora in granparte sconosciuti. I circa 200 piccoli asteroidi noti che possono intersecarel’orbita della Terra rappresentano solo la punta di un iceberg: si stima che 1500-2000altri corpi simili, di dimensioni superiori al chilometro, rimangano da scoprire;scendendo a dimensioni minime di 100 metri, il numero arriva probabilmentea parecchie centinaia di migliaia. Ancor meno tranquillizzante èla situazione per le comete, corpi celesti che provengono dalle regioni esterne del sistemasolare e divengono visibili solo quando si trovano a distanze relativamentepiccole dal Sole (e da noi), per cui è praticamente impossibile scoprirlecon buon anticipo (in tempi superiori a un anno) e anticipare una possibilecollisione. Gli astronomi ritengono ora che la maggioranza dei grandi impatti(forse l’80%) sia provocata dagli asteroidi, cioè da corpi di composizionerocciosa orbitanti nel sistema solare interno; ma su questo punto c’èancora una qualche incertezza, anche perché molte comete “invecchiate’‘e divenute inattive potrebbero avere proprietà superficiali moltosimili a quelle degli asteroidi, ed inoltre è possibile che di tantoin tanto la disgregazione di qualche grossa cometa generi uno sciame dinumerosi corpi pericolosi su orbite simili. Da una parte quindi vi sonopochi dubbi che valga la pena di sviluppare in modo più sistematicola scoperta e lo studio scientifico di comete e asteroidi che possono avvicinarsialla Terra, ma dall’altra occorre evitare il rischio di esagerare con gliallarmismi ed i catastrofismi. Per quanto riguarda le attività diricerca e scoperta, attualmente esse vengono condotte in maniera sistematicacon telescopi di piccole e medie dimensioni da vari gruppi di astronomi,soprattutto negli Stati Uniti ein Europa ; tutte le osservazionivengono inviate al Minor Planet Center dell’Università di Harvard, dove vengono archiviate e analizzateper calcolare le orbite dei corpi osservati. Lo stesso Centro inoltre mantieneed aggiorna una lista di tutti gli oggetti noti, e sollecita nuove osservazioniquando necessario.Alcuni anni fa un gruppo di studio della NASA sollecitò la creazione di una rete internazionale e coordinata diosservatori che, con una spesa relativamente modesta dell’ordine di alcuni milioni didollari l’anno, avrebbero potuto entro una decina d’anni portare alla scopertadell’80% circa degli oggetti potenzialmente pericolosi di dimensioni superiori al chilometro. Nell’attuale situazione di risorse ridotte per le ricerche astronomiche,questa proposta è stata per ora accantonata dai principali enti spaziali(sebbene essa abbia ricevuto il sostegno anche del Consiglio d’Europa).D’altra parte, nel 1996 un gruppo internazionale di scienziati ha dato vitacon scopi analoghi a una fondazione privata, denominata “Spaceguard’’ in onore dello scrittore A.C. Clarke, che molti anni fa aveva esposto un’idea simile nel romanzo “Incontro con Rama’’. La Fondazione Spaceguard,diretta dall’astronomo italiano Andrea Carusi, si propone di favorire intutti i modi la scoperta e lo studio dei corpi celesti in grado di avvicinarsialla Terra, e anche di fornire all’opinione pubblica e ai media informazioniserie e rigorose sul problema “rischio da impatti’’. Per quanto riguarda la questione di un eccessivo allarmismo, occorre notare che negliStati Uniti ed in Russia il pericolo degli impatti è stato prontamenteenfatizzato dalle lobbies scientifico-militari che, dopo la fine della guerrafredda, sono alla ricerca di nuove minacce che permettano loro di conservareposti di lavoro e finanziamenti (in particolare nell’ambito dei grandi laboratorimilitari di Los Alamos e Livermore negli USA, Celyabinsk ed Arzamas inRussia). Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un proliferaredi proposte e anche di veri e propri studi di fattibilità sulpossibile uso di missili a testata nucleare per deviare eventuali asteroidio comete in rotta di collisione con il nostro pianeta. I militari hannonaturalmente teso ad enfatizzare il rischio posto dai proiettili celestipiù piccoli (e numerosi), dai 50 ai 500 metri di diametro, che sarebberoovviamente più facili da distruggere o da deviare; ma come vedremola maggior parte degli scienziati non condivide affatto una simile analisidel problema.

Una valutazione del rischio

A mio avviso, una valutazionerazionale del rischio-impatti nongiustifica per ora niente altro che un vigoroso sforzo volto indirizzato alla ricercae alla scoperta dei corpi pericolosi di dimensioni superiori al chilometro. Per provocare una catastrofe globale, capace di alterare il clima, distruggere lafascia di ozono e provocare diffusissimi incendi, occorre un proiettileceleste di almeno qualche chilometro di diametro (allo stato attuale delle conoscenze è difficile dare una stima accurata, anche perché questa dipende dall’orbita e dalla composizione del potenziale proiettile);effetti più limitati, comparabili a quelli di un’esplosione termonucleare(ma senza inquinamento radioattivo) sono invece da attendersi nel caso dellacaduta di un grosso meteorite, di 50-100 metri di dimensioni, analoghe aquelle dei corpi responsabili del Meteor Crater e di Tunguska. D’altra parte è anche chiaro che le collisioni sono molto rare su una scala ditempo umana. Sebbene si tratti di eventi casuali, che non avvengonoa intervalli regolari, statisticamente gli astronomi sono in grado di stimare in modo affidabilela loro frequenza: il primo tipo di impatto avviene in media ogni 1-10 milionidi anni; il secondo ogni 100-500 anni, ma solo in qualche caso su centol’esplosione potrebbe verificarsi in una regione densamente popolata dellasuperficie del nostro pianeta. Per valutare il rischio associato a questieventi rari ma catastrofici, è oramai prassi comune usare la tecnicaapplicata dalle società di assicurazione per fissare i premi relativia uragani, terremoti ed eruzioni vulcaniche: si moltiplica la probabilitàdell’evento per il numero atteso di vittime. In questo modo, si puòstimare che il pericolo dovuto ad asteroidi e comete corrisponde a un numeromedio di vittime pari a un migliaio all’anno (con contributi 10 voltesuperiore da parte degli eventi globali rispetto a quelli locali).Non si tratta di una cifra del tutto trascurabile: gli allarmisti sottolineanoche gli incidenti aerei uccidono ogni anno un numero comparabile di persone.D’altra parte, soltanto in Italia gli incidenti stradali o la criminalitàcausano ogni anno circa 10 volte più morti, e per il fumo delle sigaretteil rapporto sale a circa 50. Considerando l’intero pianeta,sono decine e decine le malattie rare che ogni anno uccidono qualche centinaiodi persone (e raramente i media se ne occupano); non sono poche neppure le malattie -facilmente curabili o prevenibili con un limitato impiego di mezzi-che causano ogni anno lo stesso numero di morti (centinaia di migliaia)che potrebbe provocare l’impatto di un grosso meteorite su una città.Analoghe considerazioni si possono fare per le carestie, le guerre dimenticate e le continue catastrofi naturali e ambientali. D’altra parte, almeno perquanto riguarda gli impatti con conseguenze globali, appare discutibile il metodo che consiste nel diluire il possibile danno su un periodo di milioni dianni: un evento che a priori ha probabilità molto bassa, ma che potrebbespazzar via l’intera civiltà umana va chiaramente misurato con unmetro diverso da quello usato con i disastri che (purtroppo) si verificanodi routine.

Come affrontare il pericolo impatti?

Si può fare qualcosaper ridurre o eliminare il pericolo degli impatti? A mio avviso larisposta è molto semplice: occorre far lavorare gli astronomi! Come abbiamovisto, oggi solo il 5% circa degli asteroidi e comete più grandidi 1 km che intersecano l’orbita della Terra (alcune migliaia) sono conosciutie catalogati, e basterebbe dedicare a questa ricerca qualche decina di ricercatoria tempo pieno e alcuni telescopi di dimensioni medie (magari sottraendoliai militari russi e americani, che finora li hanno usati per spiare a vicendai rispettivi satelliti) per scoprire in pochi decenni la quasi totalitàdegli oggetti pericolosi (per lo meno in senso “globale’’) e determinarne l’orbita in modo sufficientemente preciso da poter prevedereun eventuale impatto con largo anticipo (mesi o anche anni). L’investimentonecessario è inferiore all’1% di quello richiestodalla stazione spaziale internazionale o da un grande acceleratore di particelle. Questa ricerca porterebbe inoltre significative ricadute collaterali di tipo scientificoe forse anche pratico: asteroidi e comete possono certamente svelare moltisegreti sul processo di formazione dei pianeti a partire dall’originarianebulosa circumsolare diffusa; e in futuro il materiale estratto da questipiccoli corpi, di gravità assai più debole rispetto alla Terrae anche alla Luna, potrebbe risultare assai utile per costruire grandi strutturepermanenti nello spazio circumterrestre. La grande maggioranza dei ricercatoriseri concorda invece sul fatto che non sia opportuno cominciare sin d’oraa lavorare a progetti concreti per la distruzione o la deviazione di uneventuale proiettile celeste pericoloso. I militari americani, in particolare i reduci dell’esperienza delle star wars reaganiane, stannodiscutendo il possibile utilizzo di sistemi d’arma: dai missiliminiaturizzati per colpire corpi fino ai 100 metri di diametro che peraltrosarebbe difficilissimo scoprire in tempo, dato che si tratta di milionidi oggetti di debolissima luminosità, fino alle potentitestate termonucleari da fare esplodere contro i corpi più grandi. Ma tutto ciòrichiederebbe spese assai ingenti, che resterebbero sotto il controllo deimilitari e che non sembra il caso di sottrarre ad altri problemi piùgravi ed urgenti che affliggono il nostro pianeta; sorgerebbero inoltreanche delicati problemi di diritto internazionale e di controllo degli armamenti(per esempio, alcuni trattati proibiscono di portare e far esplodere bombenucleari nello spazio). E poi vi è soprattutto il rischio di diffonderenell’opinione pubblica un’idea non vera: quella che i disastri piùtemibili siano causati dalla natura piuttosto che dall’imprevidenza e dallacupidigia umana, e che per evitarli il modo migliore sia quello di affidarsiai laboratori militari delle grandi potenze.

Climatologia
adieu?

di Antonio Navarra
ricercatore presso
l’Istituto per lo Studio delle Metodologie Geofisiche e Ambientali
del Cnr di Modena

La scoperta di un modello efficiente per simulare l’impatto dei gas serra sull’atmosfera non giustifica la fine della climatologia. L’enorme risonanza che l’argomento ha suscitato nell’opinione pubblica ha celato altre importanti questioni tuttora aperte sui cambiamenti climatici

Le discipline scientifiche si possono trovare in una situazione di crisi come forse sta accadendo ora la fisica delle alte energie. Lo stesso si può dire della climatologia? Abbiamo imparato a farci una ragione del mutare delle cose. Le cose cambiano, cambiano i tempi. Presidenti, famiglie, matrimoni e divorzi si susseguono come presi da un vortice infinito. Il simbolo più calzante per rappresentare questa fine di millennio è la sala contrattazioni di Wall Street, dove recentemente alcuni alti ufficiali delle forze armate degli Stati Uniti hanno passato parecchio tempo per fare pratica del processo decisionale in condizioni di forte pressione, osservando attentamente il modo in cui gli operatori scambiano parossisticamente enormiquantità di obbligazioni, merci e azioni. Sotto il fuoco incrociato di prodotti derivati e transazioni in moneta, i militari hanno potuto verificare direttamente il modo in cui vengono prese decisioni del valore di milioni di dollari in poche frazioni di secondo. Accorgendosi che si tratta di un processo di gran lunga più difficile di quello che riguarda operazioni a loro canoniche, come lo sbarco delle truppe in un paese nemico.
La scienza offre uno degli elementi più importanti del nuovo paradigma culturale dominante. La teoria del caos è ormai omnipresente, grazie alla sua capacità di offrire spiegazioni facili e alla portata del consumatore, per qualsiasi fenomeno o comportamento di una certa complessità.
La teoria viene utilizzata in ogni campo, probabilmente perché ci offre la rassicurante prospettiva di governare e capire il caos. L’atavica paura dell’imprevisto continua a perseguitarci.
La teoria del caos è di natura piuttosto generale perché puòessere applicata agli ambiti più diversi.. Uno dei più affascinanti è quello della simulazione matematica dell’evoluzione delle specie biologiche, nel corso di milioni di anni di storia. Modelli numerici che ci hanno consentito di osservare in silenzio il modo in cui le diverse specie sono apparse sulla scena della vita o si sono estinte, trascinate in un vicolo cieco. Crolli catastrofici di natura apparentemente casuale hanno portato circa l’80% delle specie mai esistite nel buio dell’oblio.
La Terra non è certonuova a catastrofi, ma le recenti informazioni in questo campo ci dicono che i distastri possono verificarsi a causa di fluttuazioni casuali, senza alcun bisogno di fare intervenire meteoriti, supernovae o altre cause esterne. E’ sufficiente il caos, indifferente, freddo e vorticoso.
Evoluzione e caos riguardano anche le discipline scientifiche. Come avviene per gli oggetti della biologia, anche le discipline scientifiche nascono, si sviluppano, si fondono le une con le altre e, talvolta, scompaiono. Tra loro esiste una forte competizione, nella lotta per i fondi di ricerca, nelle sgomtitate per accapparrarsi giovani talenti e visibilità. Tutto ciò all’insegna della sopravvivenza del più forte. Ma, in questo caso, il più forte in che cosa? Qual’è il criterio che consente alle discipline di fiorire? Qualche elemento di rilessione può venirci dall’esempio della climatologia e della disputa sull’effetto serra.

La nascita della climatologia numerica

La climatologia è una scienza applicata. Condivide gran parte delle idee e delle tecniche di base con la meteorologia, da cui si differenzia solo per l’aspetto apparentemente marginale delle scale temporali, che rappresentano l’oggetto principale dell’indagine. Mentre la meteorologia è principalmente incentrata su scale temporali a breve termine, la climatologia si interessa al lungo periodo. L’esatta posizione della linea di demarcazione è ovviamente oggetto di dibattito nella comunità degli addetti ai lavori: è quindi forse piùcauto asserire che tutto ciò che supera l’arco dei due mesi è materia per la climatologia e per i climatologi.
Scienza applicata significa che le leggi di base della fisica, della chimica, o di altre discipline vengono utilizzate per descrivere il comportamento di un nuovo sistema che, guarda caso, è proprio l’intero pianeta Terra. La Terra, dopotutto, e una palla rotante, leggermente ricoperta da un sottile strato liquido (di fatto molto sottile se si considera che, a essere generosi, lo spessore totale del sistema atmosfera/oceano ammonta a circa 20 km; molto poco se lo si confronta con i 6300 km del raggio terrestre), il cui comportamento è completamente governato dalle leggi della meccanica classica. La natura applicata di questa scienza si rivela nella struttura della stessa formazione accademica di chi se ne occupa. Nelle università americane, per esempio, la formazione in climatologia può essere conseguita solamente al livello di master o di dottorato, dopo 3-4 anni di studio dei fondamenti della matematica e dellafisica.
Lo sviluppo della climatologia come scienza quantitativa è stato seriamente compromesso dalle difficoltà oggettive dell’applicazione dei metodi sperimentali. Il problemaprincipale risiedeva nell’impossibilità di progettare esperimenti fondamentali che verificassero ipotesi alternative. Le montagne terrestri non possono essere spianate e/o gli oceani prosciugati per accertarne l’impatto sul clima: la climatologia èquindi sopravvissuta sommessamente, al confine tra la geografia e l’etnografia, principalmente come scienza puramente decrittiva.
Climatologia e meteorologia non erano discipline particolarmente allettanti per gli studiosi che hanno dominato i campi fondamentali della scienza alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, vi era già allora abbastanza carne al fuoco da suscitare l’interesse di John von Neumann. Un piccolo gruppo di giovani molto brillanti fu avviato a tale disciplina all’Università di Princeton pereffettuare la prima simulazione numerica dell’atmosfera terrestre, portando così la meteorologia e la climatologia alle soglie di una nuova era. Fu un punto di partenza fruttuoso e immensamente utile poiché consentì di rimuovere la difficolta fondamentale sottostante a queste discipline. La climatologia numerica consentì di mettere a punto esperimenti controllati finalizzati ad accertare il modo in cui il clima avrebbe reagito in diverse situazioni
La disputa sull’effetto serra trova le sue radici proprio nell’esperimento condotto a Princeton tanto tempo fa. Da allora la strada èstata tutta in discesa. Il sistema climatico ha guadagnato il rispetto di qualsiasi studioso interessato a capirne il meccanismo. Si tratta di un sistema molto difficile e ambiguo, con forti correlazioni interdisciplinari con la chimica, la biologia e la geologia. Sono stati necessari trent’anni perchè la climatologia potesse produrre i modelli di simulazione di qualitàaccettabile, che in gergo vengono definiti”realistici”.
La valutazione della prestazione di un modello è un processo di per sé abbastanza delicato. I modelli di previsione numerica possono essere sottoposti a verifiche molto accurate, conil controllo costante della qualità delle previsioni numeriche prodotte. La natura stessa dell’atmosfera (il caos, ancora una volta) rende impossibile il confronto diretto con la simulazione dopo un periodo di pochi giorni, oltre il qualetutto ciò che ci si può aspettare dal modello è solo la riproduzione corretta delle statistiche e dei meccanismi fisici.
I modelli climatici cercano di assicurare la corretta riproduzione di tutti i processi e la riproduzione di tutti gli eventi importanti per ogni stagione: quando queste condizioni vengono rispettate si ottiene un modello realistico.L’accertamento della prestazione è pertanto un lavoro delicato e a rischio che richiede una equilibrata capacità di giudizio e una forte onestà intellettuale. La maggior parte degli esperimenti sono infatti talmente onerosi in termini di denaro da non poter essere riprodotti; la responsabilità della correttezza dei risultati pesa quindi interamente sul ricercatore.
All’inizio degli anni ‘80 i modelli erano già sufficientemente accurati da consentire test delle varie caratteristiche del sistema climatico. Le montagne erano state liquidate anni prima, ma decine di esperimenti continuavano a essereeffettuati per controllare l’impatto delle variazioni di temperature marine, deforestazione, umidità del suolo, ghiacciai, manto nevoso e di altre caratteristiche. La sorpresa arrivò quando la concentrazione dell’anidride carbonica risultòduplicata e (per errore) addirittura quadruplicata. Un fatto che dimostrò di avereforti impatti sulla temperatura terrestre nelle zone temperate, con un aumento di 3-4 gradi che, in estate e alle alte latitudini, poteva raggiungere picchi ancora piuù elevati. Un pò di tensione fu generata dal timore che i ghiacciai non fossero in grado di sostenere tale aumento di temperatura, con un loro conseguente scioglimento e un ingente aumento del livello del mare. La crisi non poteva essere facilmente mantenuta sotto controllo regolando le emissioni di anidride carbonica. L’anidride carbonica è il prodotto piu comune della combustione dei carburanti fossili. Bruciando legna, carbone, petrolio o qualsiasi altra cosa, fatta eccezione per l’idrogeno, si producono infatti grandi quantità di anidride carbonica. Qualsiasi tentativo di controllarne la produzione interferirebbe pesantemente sulle attivita economiche e sociali. Gli esperimenti di simulazione avevano portato alla luce un problema non da poco.

Il problema dell’effetto serra

Dopo la scoperta del vasto effetto dell’aumento incontrollato dell’anidride carbonica nell’atmosfera, numerosi gruppi avviarono diversi programmi di ricerca sperimentali per studiare il problema. L’argomento ha riscosso un grande interesse da parte dell’opinione pubblica, in parte a causa delle notizie gonfiate dalla stampa, ma anche per la forte percezione che qualcosa di vero ci dovesse essere circa le interferenze nel funzionamento del pianeta, che avevano sorpassato la soglia di tolleranza. Il fatto che scienziati poco scrupolosi si siano buttati nella mischia per ottenere fondi per la ricerca ha contribuito ad accrescere la confusione.
Le prime simulazioni furono effettuate esclusivamente con modelli atmosferici, ma divenne presto chiaro che l’oceano doveva svolgere un ruolo importante. Vennero così sviluppati modelli accoppiati per includere l’effetto degli oceani. In un modello accoppiato, l’atmosfera e l’oceano vengono rappresentati come due distinti sistemi di equazioni matematiche, legati tra loro da scambi energetici al livello della superfice di contatto. L’evoluzione dell’atmosfera e dell’oceano poteva essere così facilmente calcolata fintanto che le estrapolazioni future, o i passi temporali, erano ridotti. Allineando migliaia di passi uno dopo l’altro, le simulazioni potevano essere estese per giorni, mesi e anni. Attualmente, si riescono a portare a termine un numero pari a 50-100 simulazioni all’anno e alcuni gruppi di ricerca, pochi per la verità, sono riusciti a eseguire 1000 simulazioni nell’arco di 12 mesi. I modelli sono eccezionalmente stabili e ben controllati e la qualità delle simulazioni è elevata.
Questo lavoro è giustificato dal fatto che gli esperimenti non hanno alcun confronto diretto con la realtà ma solo con esperimenti “di controllo”. Un confronto diretto tra modelli, in cui due simulazioni con parametri modificati vengono messe a confronto. Nel caso della CO2, l’esperimento di controllo contiene parametri corrispondenti al clima “attuale”, ossia la concentrazione di gas a effetto serra ai livelli attuali, mentre l’esperimento “modificato” include i valori a livelli futuri. E’ possibile creare numerosi scenari possibili, ma il progetto generale degli esperimenti rimane lo stesso. Infine, l’impatto della distribuzione dei gas serra alterati viene accertata osservando le differenze esistenti tra esperimenti modificati ed esperimenti di controllo.
L’ipotesi importante, e spesso trascurata, è quella secondo cui gli esperimenti di controllo debbano rappresentare fedelmente il clima così come noi lo conosciamo ora. In altre parole, l’esperimento di controllo deve essere una simulazione molto vicina alla situazione attuale. Questo sta a indicare chiaramente che i processi di base della fisica dei gas a effetto serra sono ben riprodotti nel modello, che risulta di conseguenza qualificato per l’indagine quantitativa dell’esperimento “perturbato”. A causa della natura elusiva del processo di convalida non sorprende che subito dopo i primi studi numerosi gruppi di ricerca abbiano scoperto che tutti i modelli non erano qualificati, fatta eccezione per i propri. Questo ha dato luogo a un’aspra disputa scientifica. Solo quando le acque si sono calmate la comunità ha concordato che il test cruciale per il modello di convalida risiede nella capacità di riprodurre l’andamento della temperatura di superficie rilevato peraltro sin dall’inizio del secolo.
Si tratta di un compito tutt’altro che facile. L’oscillazione è molto ridotta probabilmente 0,5 gradi complessivi e molto al di sotto della soglia naturale di variabilità climatica. Molti sono i fenomeni che nel sistema possono mascherare l’effetto serra; la separazione dei segnali risulta quindi alquanto difficile. E’ necessaria grande accuratezza nella definizione dei componenti attivi dell’effetto serra. L’elenco dei gas chiamati in causa si allunga sempre più (ora include anche il vapore acqueo e l’ossido di azoto). La parte chimica dei modelli si è ampliata considerevolmente, fino a includere in alcuni casi 150 tra reazioni e specie chimiche.
Lo scorso anno, due gruppi di ricerca, uno inglese e uno tedesco, hanno ottenuto per la prima volta simulazioni di ottima qualità sul trend dall’inizio del secolo. Il successo è da attribuire all’inclusione nel modello di minuscole particelle (gli aerosol) che hanno soprattutto un effetto di raffreddamento. A tale annuncio ha fatto seguito l’entusiasmo generale: i modelli erano finalmente pienamente qualificati e potevano essere utilizzati per valutare l’effetto serra.

Fine della storia?

L’entusiasmo generale fu tuttavia placato molto presto dal clima di preoccupazione generale stimolato dai diversi enti che allocavano i fondi di ricerca. Se i modelli sviluppati avevano finalmente raggiunto un buon livello di qualià non era più necessario investire fondi nelle ricerche in climatologia numerica. Il denaro poteva essere utilizzato in modo più utile, per esempio, per finanziare le valutazioni dei rischi e gli studi di impatto; in altre parole l’attenzione poteva essere rivolta a quanto i modelli avevano prodotto. Annientata dal suo stesso successo, la climatologia numerica appariva come una scienza senza futuro.
La fisica delle alte energie sta attraversando una crisi simile. Dopo una serie di importanti successi, la gloria ha cominciato a dissolversi. In questo caso la situazione è più grave poiché le teorie principali indicano che non vi è nulla di nuovo da scoprire o, meglio, niente di più interessante di quanto sia stato scoperto negli ultimi 40 anni o più. In linea di principio, le nuove teorie non possono essere verificate utilizzando macchine costruite dall’uomo. Il morale dei fisici teorici e sperimentali è certamente basso, e sono in molti gli scienziati di talento che hanno raggiunto Wall Street o che si sono dati all’informatica.
La situazione della climatologia è molto migliore. La scienza non è ancora morta, o almeno non si è suicidata. E’ stata raggiunta una pietra migliare ma piuttosto che dichiarare chiuso il problema è importante rendersi conto del reale significato del successo. L’intera vicenda evidenzia tre aspetti fondamentali: – i modelli numerici sono degli strumenti affidabili per ricerca scientifica e l’uso di modelli numerici è ora una componente matura della scienza che ha modificato lo stesso metodo scientifico. La tradizionale dicotomia esistente tra teoria e esperimento ha una nuova diramazione: la simulazione. Non si tratta di un esperimento poiché non coinvolge direttamente fenomeni reali né è assimilabile alla teoria, poiché le simulazioni vengono spesso effettuate al fine di scoprire fenomeni che non possono essere intuiti a priori. La simulazione è a pieno titolo una nuova forma di indagine scientifica, capace di estendere il metodo della scienza a campi in cui alcun tipo di esperimento poteva essere condotto.- Il livello di conoscenza dei processi fisici del sistema climaticoè molto avanzato. La quantità di sapere cristallizato all’interno dei modelli numerici è enorme.Abbiamo ora un’idea molto migliore di quali siano i processi fondamentali che governano il clima, delle loro leggi e di quale sia la loro funzione. Tale conoscenza non è limitata all’atmosfera, ma è ora estesa anche agli oceani e alla criosfera.

Non solo effetto serra

Assorbita dall’enorme visibilità conquistata dall’effetto serra, l’opinione pubblica non considera l’esistenza di altri campi della climatologia numerica, altrettanto importanti. Sono attualmente in corso molte ricerche per arrivare a previsioni dettagliate e fruibili su scala temporale stagionale. Le dinamiche strettamente collegate degli oceani e dell’atmosfera nelle regioni tropicali non sono ancora state del tutto comprese o simulate. I trend pluridecennali, quali la tendenza discendente delle precipitazioni nell’Africa subsahariana, o alle medie latitudini delle zone di bassa pressione dell’Islanda, non sono stati ancora compresi appieno. E rappresentano forse le frontiere del futuro. Il nostro pianeta conserva ancora molti segreti e molto rimane ancora da scoprire. Il nostro successo consiste nella capacità di guardare al di là delle montagne, che occultano il paesaggio di vaste pianure che vi giacciono oltre.

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