Benedetto Croce e gli scienziati

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Il pensiero del filosofo italiano sulla scienza è stato frainteso. La sua epistemologia non era “contro” la scienza, ma contro le pretese egemoniche del positivismo allora dominante

di Giuseppe Gembillo

Le riflessioni espresse da Benedetto Croce sui metodi e sulla struttura logica delle scienze sono da annoverarsi indubbiamente tra gli aspetti più controversi e meno fortunati di tutta la sua opera. Essi riguardano una tematica alla quale gli interpreti hanno fatto innumerevoli riferimenti, ma che in realtà assai raramente è stata indagata in maniera approfondita e adeguata.

Infatti quando ho cominciato a occuparmi di questo argomento, il primo aspetto che mi colpì e, per la verità, mi sorprese, fu proprio il grande squilibrio tra le molte volte e le ripetute circostanze nel corso delle quali il problema delle scienze nel pensiero di Croce veniva menzionato (in “Introduzioni”, “Prefazioni”, “Premesse” a traduzioni di testi stranieri, ecc.) e i luoghi veramente rari, nei quali invece veniva studiato in maniera analitica. Fu anche questa constatazione che contribuì ad aumentare il mio interesse per il problema della “ricezione” della specifica teoria crociana e che trasformò la consultazione della letteratura sull’argomento in una ricerca diretta e personale.(1) Ricerca che, a mano a mano che si ampliava, mi poneva di fronte a un serie di articolazioni e di differenziazioni prima non sospettate e comunque non debitamente rilevate.

La più importante di queste articolazioni è relativa alla differenza posta preliminarmente da Croce tra filosofia e scienze. Distinzione che, contrariamente alla tendenza dominante da Dilthey in poi, riguarda per Croce non gli oggetti di cui filosofia e scienze si occuperebbero, ognuna secondo specifiche e quasi esclusive competenze (per esempio, rispettivamente, la storia e la natura); ma il diverso metodo di cui esse fanno prevalente uso e che in linea generale le caratterizza. (2) La seconda, altrettanto fondamentale, consiste nel fatto che Croce svolgeva la sua polemica non contro le scienze in quanto tali, ma contro una concezione filosofica, il positivismo allora dominante, che pretendeva di estendere i metodi classificatorio, generalizzante ed astraente anche alla filosofia; pretesa che derivava dalla convinzione secondo la quale tali metodi o procedimenti dovrebbero considerarsi “conoscitivi”.

A testimonianza dell’attenzione che Croce poneva nel distinguere nettamente da un lato le scienze e le metodologie che le caratterizzano e dall’altro le concezioni filosofiche che, spesso arbitrariamente, si pretende di mutuare da esse, va ricordata la polemica che egli suscitò contro le interpretazioni positivistiche del pensiero di Galileo Galilei.

In proposito, infatti, opponendosi a coloro che consideravano il pensiero galileiano come una perfetta esemplificazione del “metodo empirico puro”, Croce sosteneva che Galileo andava considerato non solo grande scienziato ma, in quanto metodologo, anche grande filosofo, anzi come il solo vero filosofo dell’età barocca. (3) Le sue continue precisazioni su tutta la questione, però, non erano state sufficienti a dissipare gli equivoci, ed egli se ne lamentava ripetutamente.

Lo faceva per esempio nel 1917, in occasione della sua terza edizione della sua Logica come scienza del concetto puro nella quale, ricordando la temperie culturale degli anni 1904-1905, scriveva: “Quando questo libro fu la prima volta pubblicato, parve a molti che esso fosse in guisa precipua una assai vivace requisitoria contro la Scienza; e pochi vi scorsero ciò che soprattutto era: una rivendicazione della serietà del pensiero logico, di fronte non solo all’empirismo e all’astrattismo, ma anche alle dottrine intuizionistiche, mistiche e prammatistiche, e a tutte le altre, allora assai poderose, che travolgevano col positivismo, a giusta ragione avversato, ogni forma di logicità. (4)

Una precisazione altrettanto chiara aveva espresso anche a proposito di un altro punto fermo della sua concezione: la distinzione “metodologica” posta tra filosofia e scienze. La convinzione, cioè, secondo la quale l’aspetto che doveva essere sottolineato, nel confronto tra di esse, riguardava i loro modi di procedere specifici che non connotano fortemente la fisionomia e che tuttavia non la “esauriscono” totalmente. Riferendosi infatti al senso complessivo della propria teoria, Croce precisava esplicitamente che nel contesto di essa, a ben vedere, “il distacco che vi si compie della filosofia della scienza non è distacco da ciò che nella scienza è verace conoscere, ossia dagli elementi storici e reali della scienza, ma solo dalla forma schematica, nella quale questi elementi vengono compressi, mutilati e alterati; e perciò è, nello tempo stesso, un ricongiungimento con quanto ha di vivo, di concreto e di progressivo nelle cosiddette scienze. (5)

Il suo intento principale, dunque, nel corso della dura polemica con il positivismo in quanto concezione filosofica empiristica, era quello di rivendicare con forza e con convinta insistenza la specificità del metodo della filosofia. Di quel metodo “concreto” o, kantianamente, “sintetico a priori” che in una pagina fondamentale della Logica lo spingeva a sentenziare espressamente: “Chi non accetta la sintesi a priori è fuori della strada della filosofia moderna, anzi della filosofia senz’altro, e deve sforzarsi di trovarla o di ritrovarla, se non vuole bamboleggiare con l’empirismo, sdilinquire col misticismo o annaspare nel vuoto dello scolasticismo”. (6)Quella di Croce era dunque una battaglia condotta per conto e in nome della “logica della filosofia”; di quella logica “concreta” che ai suoi occhi poneva Kant come momento essenziale di collegamento tra il pensiero do Vico e quello di Hegel.

Ma non è tutto : se ci fermassimo a queste considerazioni contribuiremmo a delineare un’immagine assai riduttiva della posizione di Croce. La sua, infatti, non solo non era una mera “reazione idealistica contro la scienza”, per citare la fortunata ma assai fuorviante espressione di Antonio Aliotta (7), ma rappresentava una posizione molto piu complessa e, per quel che piu conta, perfettamente aderente allo spirito del suo tempo.Se è vero, infatti, che Croce rivendicava fermamente per la filosofia la hegeliana logica dialettica, è altrettanto vero che nella sua polemica contro la filosofia positivistica egli utilizzava proficuamente ed esplicitamente la appena nata ma già prepotentemente emergente epistemologia. Infatti, come hanno dovuto riconoscere i più attenti tra i critici di Croce, egli ha utilizzato i risultati dell’epistemologia a lui contemporanea, operando, come voleva Carlo Antoni, una sorta di “innesto” di essa “nel tronco della filosofia hegeliana”. Innesto eseguito non per combattere, come si affermava allora e si continua a ripetere oggi, la scienza, ma per denunciare la pretesa della filosofia positivistica di imporre come “conoscitivi” certi metodi che non apparivano conoscitivi nemmeno a molti di coloro che pure all’occorrenza, se ne servivano proficuamente.

Che questo sia vero; che sia incontestabile la consonanza tra le enunciazioni crociane e le tesi epistemologiche generali di Poincaré e di Mach, di Vailati e di Russell è confermato non solo dal fatto che molti critici di Croce lo hanno dovuto riconoscere, ma anche e soprattutto dal fatto che coloro i quali invece non ne hanno voluto prendere atto hanno dovuto respingere non solo le tesi crociane, ma anche quelle di scienziati ed epistemologi come, appunto, Poincaré, Mach e tanti altri.Non potendo ovviamente ripercorrere, in queste brevi considerazioni preliminari, la storia di questa polemica, mi limito a ricordare il solo caso , che però assume un significato generale, di Ernst Mach, contro la cui concezione pratico-economica della scienza si sono dovuti dichiarare, tra i tanti altri, pensatori certamente non legati da “affinità elettive” come Lenin e Popper.

Ho sottolineato il termine “dovuti” perché la loro opposizione era, per entrambi, certamente inevitabile, tenuto conto delle loro “metafisiche”: il realismo politico-scientifico di Lenin non poteva tollerare la fine dell’oggettività e della inappellabilità dei risultati scientifici, pena, ovviamente, la fine della “scientificità” cogente del marxismo; il falsificazionismo di Popper e il suo metodo ipotetico-deduttivo non avrebbero senso, o termine di confronto “corroborante”, senza un riferimento esterno stabile a una realtà oggettiva.

Considerato ciò, un confronto tra Croce e le sue fonti non mi sembra efficace per la situazione delle controversie suscitate dal nostro argomento; perché, ovviamente, la constatazione della consonanza tra un pensatore e certe sue fonti diventa poco probante quando anche le fonti subiscono la stessa sorte di colui che ad esse si ispira. Siccome però tali fonti sono state “ridimensionate” con la motivazione che esse non hanno “prodotto frutti” significativi nelle fasi successive, nel senso che non avrebbero avuto sviluppi effettivi e concreti – mi sembra opportuno analizzare nuovamente tutta la questione “riorientando”, per cosi’ dire, la prospettiva spostando la direzione di osservazione dal passato al futuro: dalle fonti di Croce a coloro che hanno espresso le loro enunciazioni epistemologiche successivamente a lui. E siccome questa sorta di “messa tra parentesi” degli empiriocriticisti è avvenuta anche per opera di alcuni filosofi della scienza -come per esempio, Popper e Lakatos (8) – mi sembrava piu corretto verificare questo atteggiamento e queste conclusioni dialogando non tanto con i “nuovi epistemologi”, ma con quelli che dovrebbero essere la loro nuova fonte di ispirazione, cioè gli scienziati contemporanei. Questa scelta si rivela particolarmente interessante anche per altre ragioni.

Innanzitutto perché gli scienziati contemporanei hanno espresso le loro idee rivoluzionarie in un periodo successivo alle prime enunciazioni di Croce e, ovviamente, a quelle delle sue fonti. Poi perché essi non hanno aspettato gli epistemologi per indagare le fondamenta della loro scienza, ma hanno sentito imprescindibile il bisogno di farlo in prima persona, estendendo anzi le loro analisi sia al metodo che alle implicazioni metafisiche delle loro scoperte. Infine, e soprattutto, perché in molti casi si sono mostrati molto piu spregiudicati e rigorosi di tanti epistemologi di professione, che pure dichiaravano di ispirarsi alle loro teorie. Un confronto diretto con le loro posizioni, allora, sarà più probante e più adatto a corroborare o , eventualmente, a smentire, la posizione, diciamo cosiì, crociano-machiana. Naturalmente tale confronto se vuole essere serio e avere un preciso significato che comprenda nel proprio orizzonte sia le questioni “di fatto” che quelle “di diritto”, deve riguardare non gli aspetti secondari o degli enunciati generici, ma direttamente i principi fondamentali su cui è stato edificato l’edificio della scienza; quei principi fondamentali che costituiscono la struttura portante dell’edificio e ne determinano il suo essere posto su strutture solide o, per usare l’espressione di Pascual Jordan e di Karl Popper, su “palafitte”. (9) Per dare maggiore chiarezza all’esposizione e per svolgere l’argomentazione col dovuto rigore, ho articolato questi aspetti nei seguenti punti:

  1. Il dilemma continuità-discontinuità dei fenomeni fisici;
  2. Il concetto di “natura”;
  3. La relazione causa-effetto;
  4. L’astrazione come modo di procedere della scienza;
  5. Ll carattere e i limiti della conoscenza scientifica tradizionale;
  6. le premesse per una scienza storicizzata;
  7. Alcune considerazioni conclusive sulla cosiddetta “svalutazione” crociana delle scienze.

L’analisi particolare, anche se necessariamente rapida, di ognuno di questi punti consentirà forse di cogliere alcuni aspetti essenziali di un problema certamente complesso ma estremamente interessante sia in ambito filosofico che in ambito epistemologico.

Il dilemma continuità-discontinuità dei processi fisici

Articolerò i singoli punti in due parti: nella prima riassumerò brevemente la posizione di Croce, mentre nella seconda inserirò di volta in volta una serie di scienziati che costituiranno gli interlocutori che sembreranno via via piu idonei a sviluppare il confronto a distanza che intendo istituire.Cominciando dunque dal primo punto, che Croce espressamente denominava “postulato dell’uniformità della natura”, c’è da rilevare innanzitutto che egli ne chiariva il senso ripercorrendone le genesi e i successivi sviluppi. Ricordava infatti che già Kant lo aveva inserito tra i “principi d’origine trascendentale” (10), e che da parte loro gli scienziati lo avevano sempre presupposto come fondamento “preliminare” e indiscusso delle loro ricerche, senza tuttavia riflettere adeguatamente attorno ad esso. Se lo avessero esaminato con sufficiente attenzione, si sarebbero invece accorti che esso è “falso e assurdo”, perché “la realtà non è; costante né uniforme”, ma è; soggetta a “perpetua evoluzione e trasformazione”. (11)

Croce spiegava la fiducia che gli scienziati e i filosofi avevano riposto in tale principio con la necessità pratica di rendere uniforme il difforme e simile il dissimile, in modo da poter “operare”, grazie a questa “manipolazione”, su ciò che in sé è mutevole, “fingendolo” appunto “fisso”, statico e costante. Basandosi su queste considerazioni, egli suggeriva di trasformare adeguatamente il noto detto natura non facit saltus, di per sé ambiguo e fuorviante, in quello, piu corretto perché rispondente “ai fatti”, mens facit saltus in naturae cogitatione. (12)

In ultima analisi il postulato, ai suoi occhi, non è altro che una “prescrizione”, dettata da ragioni di pratica utilità, dell’uomo alla realtà. Esso cioè; rappresenta, come Croce precisa esplicitamente, un modo di “atteggiarsi” di fronte ad essa, la quale nella sua essenza concreta Ë invece in perpetuo divenire.Ma appunto questo era un modo di impostare il problema che non rispondeva a una mera esigenza personale di Croce, anche perché la questione ormai non era piu circoscritta al solo ambito filosofico, come era avvenuto per un certo periodo, dopo che i fisici classici si erano convinti di aver risolto, per la loro parte, il problema stesso.Infatti nello stesso periodo in cui egli andava svolgendo queste considerazioni, tale postulato veniva rimesso in discussione anche nell’ambito delle scienze empiriche.

Ciò accadeva, com’è noto, agli inizi del Novecento, quando Max Planck, indagando alcuni fenomeni particolari relativi ai processi di emissione e di assorbimento dell’energia raggiante, scopriva che essi avvengono in maniera discontinua. E anche se in una prima fase non aveva attribuito eccessiva importanza alla scoperta, ritenendola un’anomalia peculiare al fenomeno indagato, successivamente era stato costretto a riconoscerla, suo malgrado, come “fondamentale”. Fin da quando, com’è noto, Albert Einstein individuò una struttura “quantistica” anche nella costituzione “corpuscolare” della luce; e, ancor di piu, quando Niels Bohr la ipotizzò nella costituzione e nella conformazione degli atomi e delle molecole. (13)

Dopo queste due enunciazioni la tendenza verso la descrizione discontinua della realtà divenne irreversibile. Consapevole di ciò, Max Planck ricordava innanzitutto che “la continuità di tutte le azioni dinamiche” aveva costituito, fino a poco tempo prima, la premessa incontestata di tutte le teorie fisiche, sintetizzata nel detto natura non facit saltus; ma doveva riconoscere, sia pure con evidente rammarico, che “anche in questa fortezza della fisica, sempre rispettata sin dai tempi antichi, l’indagine moderna ha aperto un breccia pericolosa”. In considerazione di ciò, concludeva che dunque il postulato dell’uniformità della natura aveva i “giorni contati”. (14)

Queste riflessioni di Planck stimolarono , per via diretta o attraverso un serie articolata di mediazioni, molti altri fisici, che contribuirono per parte loro a corroborarle e ad approfondirle.Max Born, per esempio, nel contesto di un discorso che spaziava dai problemi fisici alle implicazioni epistemologiche fino ai fondamenti metafisici, ribadiva che gli “effetti quantistici” sono una “caratteristica generale dei sistemi fisici”; constatava che la discontinuità è presente “non solo nella radiazione ma anche nella materia ordinaria”; e concludeva anche lui che “la vecchia regola natura on facit saltus si dimostrava falsa”. (15)

Su questa via il dibattito assumeva proporzioni sempre piu ampie, anche perché i fisici si trovarono a dover prendere atto, com’è noto, di un nuovo radicale dilemma che si imponeva loro e che si manifestava nella contrapposizione tra teoria corpuscolare e teoria ondulatoria della realtà fisica. Quel dilemma che Louis de Broglie definiva “il problema del continuo e del discontinuo” (16) e che, proprio perché poneva i fisici di fronte a un’alternativa che paradossalmente appariva “indecidibile”, implicava innanzitutto il superamento della fede dommatica in una descrizione “oggettiva” della realtà.

Il concetto di natura

La svolta avvenuta nel modo di considerare la realtà coinvolge ovviamente il termine natura, imponendo una ridefinizione del suo significato.E’ quanto Croce proponeva espressamente di fare, assumendo una posizione del tutto originale. Egli invitava innanzitutto a riflettere sul fatto che quando parliamo della natura in senso scientifico non ci riferiamo, come acriticamente siamo portati a credere, al cosiddetto mondo inanimato; non indaghiamo “una parte della realtà”. Ciò che in effetti facciamo Ë utilizzare un “metodo” adatto per “manipolare” la realtà; per operare “praticamente” su di essa. Intesa in questo senso metodologico, “la ‘natura’ coincide con quell’atto spirituale dell’uomo” mediante il quale egli distrugge per i suoi fini speciali l’individualità e l’universalità del reale e crea la natura, cioË naturalizza la realtà”. (17)Derivando da un tipo particolare di operazione intellettuale, la “natura” non è, quindi, il mondo esterno oggettivo entro il quale viviamo e operiamo; “non è la realtà o una parte della realtà ma è un modo di considerare, anzi un modo di fare” (18).

Croce ha insistito molto su questo aspetto della nostra attività relativa alla formazione di quella che i fisici contemporanei amano definire “la nostra immagine del mondo”; su quel nostro tipo di approccio a ciò che ci circonda, che Henri Bergson definiva parler le monde. (19)E poiché evidentemente non si trattava di un problema circoscritto all’interno di un sistema filosofico, la sua posizione ha presto trovato indiretto ma puntuale riscontro nelle riflessioni di molti fisici contemporanei. Per esempio in quelle di Werner Heisenberg, che ha istituito per conto suo una specie di confronto tra “natura e fisica moderna”. Per fare ciò Heisenberg ha seguito la genesi e l’iter storico che hanno gradualmente prodotto una vera e propria “trasformazione di significato” del termine natura.

Muovendo dal periodo durante il quale il concetto di “natura” si identificava sostanzialmente con quello di “realtà”, esso sottolinea che in un dato momento dello svolgimento storico esso di fatto si trasformò completamente e “diventò un concetto che abbracciava tutti quei campi dell’esperienza in cui l’uomo poteva penetrare con l’ausilio della scienza e della tecnica, indipendentemente dal fatto che quei campi gli si presentassero o no come ‘natura’ nell’esperienza immediata”. (20) Il che significa che a suo parere la storia della scienza moderna, dalla sua nascita fino ai nostri giorni, mostra una caratteristica specifica inconfondibile. Una caratteristica che suggerisce ad Heisenberg una conclusione forse sorprendente in bocca a uno scienziato, ma certamente meditata e difficilmente contestabile. Egli infatti nota che si è ormai manifestato un mutamento così radicale nel modo consueto di rapportarsi al mondo che oggi “se si può parlare di un’immagine della natura propria della scienza esatta del nostro tempo, non si tratta più propriamente di un’immagine della natura, ma di un’immagine del nostro rapporto con la natura”. (21)

Ma Heisenberg non si ferma a queste considerazioni e torna ripetutamente sul carattere “artificiale” del nostro approccio scientifico alla realtà. Là dove, per esempio, rileva che “noi viviamo in un mondo talmente trasformato dall’uomo da imbatterci sempre e dovunque in strutture prodotte da lui” (22); o dove, ancor più icasticamente, ribadisce che così come avviene in tutte le altre attività spirituali, “anche nella scienza, oggetto della ricerca non è quindi più la natura in sÈ, ma la natura subordinata al modo umano di porre il problema”. (23)

Tutto questo significa, in ultima analisi e secondo le esplicite conclusioni di Heisenberg, che “l’uomo incontra anche qui solo se stesso”. (24) Dopo questa evidente perdita di “oggettività” del discorso scientifico per quel che riguarda “ciò di cui si parla”, appare ovvio che deve essere messo in discussione anche il “modo” in cui se ne parla, attraverso un riesame puntuale delle strutture logiche del linguaggio scientifico.

La relazione causa-effetto

Se i fenomeni fisici non si succedono in maniera continua, se non si collageno tra loro senza lasciare intervalli piu o meno ampi, se, in ultima analisi tra l’uno e l’altro c’è il vuoto, allora da ciò consegue che il rigoroso collegamento logico che noi siamo soliti postulare tra di essi non è necessariamente valido. Il che significa che, filosoficamente parlando, la categoria kantiana della causalità va riesaminata in maniera sostanziale.Per la verità tale categoria era stata già definita una “mostruosità concettuale” da Ernst Mach al quale, come ho rilevato, Croce espressamente si collegava condividendone la connotazione generale attribuita alla scienza.

Nel caso specifico assumendone espressamente anche l’argomentazione, Croce ribadiva da parte sua che la fisica “ha a suo unico fondamento le descrizioni dei fatti naturali, nei quali non vi sono mai casi eguali, che vengono foggiati soltanto nella imitazione schematica che si fa della realtà e in cui prende altresì origine la mutua dipendenza che si suole stabilire nei caratteri dei fatti”. (25)Muovendo da questa convinzione, Croce ha sentito il bisogno di ribadire, ogni volta che se ne è presentata l’occasione, una considerazione che riassume efficacemente il suo pensiero e ci esime da ulteriori riferimenti specifici ad esso. Precisava infatti che “a ciò si restringe il significato del principio di causalità, che, per evitare fantasticherie e mitologie, sarebbe opportuno sostituire col concetto di funzione”. (26) Questo problema relativo alla reinterpretazione del concetto di causa ha suscitato un dibattito filosofico talmente ampio e profondo da coinvolgere la parte piu importante e significativa del pensiero filosofico contemporaneo. (27).

Ma, per quel che più conta, ai nostri fini, ha talmente coinvolto gli scienziati che si potrebbe affermare che la parte più importante della scienza contemporanea può essere ricostruita ripercorrendo l’articolarsi del dibattito sulla casualità. Di quel dibattito che ha indotto i fisici a schierarsi via via nei fronti opposti dei causalisti e dei casualisti, a favore, rispettivamente, delle “leggi dinamiche” o delle “leggi statistiche”, secondo una contrapposizione posta esplicitamente da Max Planck e poi ripetutamente richiamata in un lungo dibattito che si configurò come un vero e proprio scontro metafisico, terminando con quello che Waisman definiva “il tramonto e la fine della causalità” (28) Questo processo di dissoluzione, determinato dalla scoperta della discontinuità quantica, si è articolato e sviluppato in una maniera così complessa che certo non è riassumibile in poche battute.

Quel che si può definire con una certa precisione, all’interno di tutto lo svolgimento, è il punto di svolta, che ha orientato in maniera conclusiva il dibattito. Mi riferisco, ovviamente, alle considerazioni espresse al riguardo da Werner Heisenberg nel1927, quando, nel contesto all’interno del quale enunciò il “principio di indeterminazione”, mise definitivamente in crisi il concetto di causa.Infatti, traendo le conseguenze insite in tale principio egli, com’è noto, rilevava innanzitutto che “nella formulazione netta della legge di causalità ‘se conosciamo esattamente il presente, possiamo calcolare il futuro’, è falsa non la conclusione, ma la premessa”. (29); quindi motivava la sua affermazione sottolineando il fatto che dal “principio di indeterminazione” consegue che “noi non possiamo in linea di principio conoscere il presente in ogni elemento determinante”. (30)

In altri termini, Heisenberg, muovendo di limiti imposti alla possibilità di fare osservazioni precise, enucleava in particolare la conseguenza secondo la quale, “poiché tutti gli esperimenti sono soggetti alle leggi della meccanica quantistica”, e nel caso specifico a quella che simbolizza il “principio di indeterminazione”, da ciò che segue “mediante la meccanica quantistica viene stabilita definitivamente la non validità della legge di causalità”. (31)Le enunciazioni di Heisenberg ebbero naturalmente un effetto dirompente. Ma, a parte Einstein, che rimase fino alla fine un “inveterato determinista” (32) e pochi altri che restarono disorientati e non riuscirono più ad assumere un atteggiamento personale “definitivo” (33), la stragrande maggioranza dei fisici si “convertì” presto alle tesi di Heisenberg. Tesi subito autorevolmente condivise e ribadite da Niels Bohr, il quale affermò esplicitamente che il postulato dei quanti “implica una rinuncia alla coordinazione casuale spazio-temporale dei processi atomici”; e aggiunse che la prova più chiara dell’avvenuta rivoluzione nell’ambito della fisica contemporanea era fornita proprio dalla constatazione del fatto che “anche il principio di causalità, fin qui ritenuto fondamento indiscutibile di ogni interpretazione dei fenomeni naturali, si è rivelato incapace di abbracciare anche le regolarità caratteristiche dei processi atomici individuali”. (34)Al di là di quelli che sono stati gli esiti e le varie articolazioni del dibattito che, come dicevo, caratterizzò larga parte degli interventi epistemologici e filosofici dei fisici, un fatto è sicuramente certo: da quel momento in poi il concetto classico uscì completamente trasformato. Non solo quando se ne decreto’ “il tramonto”, come voleva appunto Waismann; ma anche quando si cerco’ di “salvarlo”, come tento’ di fare Ernst Cassirer il quale, però, per ottenere lo scopo, fu costretto a fornire una definizione troppo ampia e purtroppo onnicomprensiva di esso”. (35)

L’astrazione come modo di procedere della scienza

Il discorso che stiamo articolando, seguendo gli sviluppi della scienza contemporanea, evidenzia in maniera sempre più chiara il fallimento di quello che era stato l’obiettivo non solo della scienza stessa ma, in senso più ampio, di tutta la conoscenza “occidentale”: di quell’obiettivo che in epoca medioevale era sintetizzato dalla formula adequatio rei et intellectus e che in epoca moderna aveva suggerito il celebre postulato secondo cui “l’ordine delle idee è tale e quale l’ordine delle cose”.Ora proprio la crisi del concetto di causa veniva a dimostrare in maniera definitiva che le nostre categorie non si adeguano perfettamente né alla “cosa in sé”, né ai “fenomeni”.Tornava allora prepotentemente alla ribalta la questione della struttura e della connotazione della scienza. Questione che Ernt Mach aveva risolto, com’è noto, parlando di connotazione “economica” della scienza e attribuendo ad essa come caratteristica fondamentale quella dell’”astrattezza”. Là dove, per esempio, aveva sottolineato che “il ruolo determinante dell’astrazione nella scienzaè di palmare evidenza”; motivando questa affermazione con puntuali e rigorose argomentazioni. Infatti quando si applica alla realtà l’analisi scientifica, “non è possibile tener conto di tutti i dettagli di un fenomeno né avrebbe senso farlo. (36)Questo significa che nel nostro approccio alla realtà concreta, in presenza della enorme complessità dei fenomeni, noi operiamo una selezione, isoliamo alcuni aspetti e “teniamo conto delle circostanze che ci interessano, e di quelle che sembrano dipendere dalle prime”. (37)Croce aveva fatto proprie queste considerazioni, generalizzando il discorso machiano e articolandolo con maggiore precisione. Notava, in particolare, come il “metodo scientifico” abbia bisogno di una serie di passaggi strettamente interconnessi attraverso i quali lo scienziato “astrae” dai fenomeni osservati certi elementi comuni; “generalizza” i dati ottenuti, postulandoli “validi” anche per le esperienze future; “classifica”, cioè raggruppa in vari “insiemi”, i fenomeni “simili”.Questa caratterizzazione, che pure a molti critici è sembrata una “caricatura” piuttosto che una connotazione del procedere scientifico, ha invece ritrovato puntuale riscontro nei piu consapevoli scienziati contemporanei. Per esempio Werner Heisenberg, il quale collegava a tale procedere il termine “capire” e ne delimitava il significato proprio in tale direzione, là dove affermava che per lo scienziato “capire significa riconoscere le relazioni, vedere il fatto singolo come caso particolare di qualcosa di più generale”. (38) O dove, sottolineando la connessione tra i due momenti, rilevava che “il passo verso una generalizzazione piu ampia è sempre un passo verso l’astrazione, o più precisamente, verso il grado di astrazione successivo”. (39)Questo perché in effetti la scienza nel suo evolversi segue un “processo sempre crescente di astrazione”, spinta a ciè non dal caso o da un’operazione metodologica arbitraria, ma “per palese obbedienza ad una spinta interna”. (40)Se questo è vero, appare opportuno analizzare meglio la connotazione specifica di ciò che si intende per “astratto”, e delineare con la dovuta precisione il ruolo e la funzione nella scienza. A questo scopo Heisenberg svolgeva una puntuale argomentazione, a conclusione della quale, riassumendo i termini della questione e sintetizzandone i risultati, precisava che “l’astrazione rappresenta la possibilità di considerare un oggetto o un gruppo do oggetti da un solo punto di vista, tralasciando tutte le altre proprietà dell’oggetto”. (41)Per queste ragioni, aggiungeva da parte sua Pascual Jordan, sia “il carattere astratto di tutta la teoria” che i suoi esiti “devono essere considerati come definitivi”. (42)Ma se la struttura della scienza ha queste caratteristiche particolari, si impone un nuovo problema, relativo al senso da attribuire al “conoscere scientifico” . A quel conoscere, cioè, che indica come propri momenti costitutivi il generalizzare, il classificare, l’astrarre. E’ una questione che emerge ora dall’ordine logico della discussione che andiamo svolgendo e che suggerisce appunto diverse domande e, auspicabilmente, qualche risposta.

Il carattere e i limiti della conoscenza scientifica tradizionale

Riflettiamo innanzitutto sulle ragioni che rendono inevitabili e urgenti le domande.Se è vero che la connotazione della scienza oggi generalmente accettata è quella che abbiamo delineato finora, non possiamo esimerci dal porci le seguenti domande: che cosa significa, dal punto di vista della scienza “comprendere”? Questo ha delle limitazioni particolari?Sappiamo che Croce negava a tale modo di procedere la possibilità e la capacità di conoscere, in quanto determina la “perdita” della “realtà viva e mutevole”. Non ci resta che ascoltare, allora, le dichiarazioni di qualche fisico.Comincerò, ancora, da Werner Heisenberg, che ha sentito il bisogno di collegare in maniera sistematica e rigorosa queste domande nelle questioni che andiamo affrontando e discutendo.In proposito egli ha, per esempio, avvertito che per ben impostare i tentativi di risposta, come primo atto “dobbiamo sottolineare la limitatezza di una conoscenza fondata sull’astrazione”. (43)A esemplificazione di questa pregiudiziale egli ha poi rilevato che l’astrazione fornisce una visione della realtà talmente parziale e incompleta che ci impone di riconoscere che “la conoscenza del mondo che si ottiene in questo modo sta alla conoscenza in cui speravamo all’inizio e a cui ancora aspiriamo, come il paesaggio di una regione visto da un aereo che vola molto in alto sta all’immagine che ne possiamo avere viaggiando o vivendo in quel paese”. (44)Questo avviene perché come da parte sua notava Albert Einstein, “contenuto vivente e chiarezza sono incompatibili fra loro: l’uno sfugge all’altra” (45). Il che significa che la nostra “immagine del mondo” nonè altro, come sottolineava Max Planck, che l’elemento di mediazione tra la soggettività dei nostri sensi e “il mondo esterno reale” (46) ;è un’immagine soggetta a un destino “segnato”, perché “divenendo piu precisa, si allontana sempre piu dalla natura viva”. (47)In considerazione di ciò, Heisenberg invitava a riflettere sul fatto che ormai “la scienza non tratta del mondo quale direttamente ci si offre, ma di un oscuro retrofondo di questo mondo, che noi portiamo alla luce coi nostri esperimenti” (48). In questo modo Heisenberg, riecheggiando una celebre espressione di Du Bois-Reymond che scandalizzò gli scienziati di fine ottocento, concludeva che dunque noi urtiamo inevitabilmente “contro gli insuperabili confini della conoscenza umana” (49).

Le premesse di una scienza storicizzata

Dunque i confini della conoscenza scientifica sembrano insuperabili. E tali effettivamente sono, per Croce, almeno fino a quando gli strumenti per oltrepassarli continuano ad essere gli schemi e le astrazioni. Fino a quando, cioè, il procedimento conoscitivo resta caratterizzato dal metodo “riduzionista” che porta dal complesso al semplice, allontanandosi, come abbiamo visto rilevare agli stessi scienziati, dalla concretezza del reale. Quella concretezza in nome della quale certa filosofia, da Vico in poi, ha combattuto la propria battaglia per una “scienza nuova” indissolubile dalla storia e rivolta a tutta la realtà; mentre con Croce ha fermamente invitato a non fissare fratture artificiose tra natura e storia perché “il mondo dell’accaduto, del concreto, dello storico, è ciò che si chiama il mondo della realtà e della natura, comprendente così la realtà che si dice fisica come quella che si dice spirituale e umana”. (50)Tale processo di storicizzazione, nel corso dell’Ottocento è stato avviato anche all’interno delle scienze, nel cui ambito ciò che prima era considerato “fisso” e costituito in forma definitiva, si è via via mostrato come evento in perpetua trasformazione. Questa tendenza si manifesta ormai in maniera così evidente da indurre Croce a rilevare che anche in ambito scientifico “i concetti storici di evoluzione o di evoluzione creatrice, di lotta per la vita, di trionfo del migliore, e simili, entrati nelle scienze naturali […] tendono appunto a mettere in chiaro che il contenuto conoscitivo delle scienze naturali è contenuto storico”. (51)

Che questa riflessione di Croce corrisponda ampiamente a verità è confermato dal fatto che ormai i piu consapevoli tra gli scienziati contemporanei collegano strettamente la loro disciplina alla sua storia e sentono il bisogno si mettere in rilievo non solo i risultati delle loro teorie, ma anche i vari passaggi che hanno condotto alla loro formulazione. La svolta verso questa nuova direzione è stata senza dubbio determinata dal sorgere e dal rapido affermarsi della fisica quantistica, che ha portato alle estreme conseguenze le premesse insite nel metodo scientifico, fino a farle esplodere clamorosamente, quando, per esempio, ho dovuto riconoscere, con Niels Bohr, la ineliminabile “dualità” nella descrizione scientifica del mondo. (52) Questa “rottura metodologica” ha poi determinato, com’è ormai ampiamente noto, una crisi così profonda da mettere per la prima volta in discussione la “centralità” della fisica e la “esemplarità” del suo metodo. Il conseguente processo di dissoluzione ha portato alla crisi del “riduzionismo” e ha indotto gli scienziati a mettere seriamente in questione questo procedimento, fino ad ora ideale indiscusso delle scienze tutte.

Lo scienziato che con maggior impegno e rigore si è proposto di cambiare metodi e fini delle scienze, volgendone la direzione di marcia dal riduzionismo alla valutazione dei fenomeni considerati in tutta la loro complessità,è senza dubbio Ilya Prigogine. Egli, portando a chiara esplicitazione la tendenza verso la concretezza , sottolinea con forza che il fine verso il quale le scienze devono tendere è “descrivere la natura in termini di divenire” e delineare “un mondo aperto alla storia”. (53) Obbiettivo, questo, che è ormai consapevolmente perseguito dalla cultura piu aderente allo spirito del proprio tempo.

Constatato ciò, Prigogine ritiene di poter caratterizzare la nostra epoca come connotata da quella “coscienza storica” che anche un filosofo certamente non storicista come Gadamer giudica “la piu importante fra le rivoluzioni da noi subite dopo l’avvento dell’epoca moderna”. (54) Prigogine infatti si rende perfettamente conto del fatto che viviamo in un contesto di diffuso “storicismo”, che ha pervaso tutte le nostre attività non solo, ovviamente, “di fatto”, ma anche a livello di consapevolezza, in uno storicismo inteso proprio nel senso che gli attribuiva Croce e cioè come concezione per la quale tutta “la realtà è storia e nient’altro che storia”. (55) Da parte sua Prigogine rileva che quella attuale “è l’epoca in cui tutti i tratti della cultura umana, le lingue, le religioni, le tecniche, le istituzioni politiche, i giudizi etici ed estetici, vengono visti come prodotti di storia e in cui la storia umana si legge come la scoperta progressiva dei mezzi razionali per dominare il mondo”. (56) In questo contesto anche gli scienziati devono seguire la direzione indicata dai cultori delle “scienze dello spirito”; devono cioè compiere il passo decisivo verso l’analisi del concreto, tornando ad indagare la natura nella sua effettiva realtà costitutiva, che ovviamente è; storica ed evolutiva, ed è intrinsecamente caratterizzata, come Prigogine precisa espressamente, dal divenire temporale.

Questo significa che dobbiamo riconoscere e accettare il dato di fatto per cui “oggi, le scienze cosiddette esatte hanno il compito di uscire dai laboratori in cui hanno a poco a poco imparato a resistere al fascino di una ricerca della verità generale della natura. Esse sanno ormai che le situazioni idealizzate non forniscono nessuna chiave universale del sapere. Esse sanno che devono ridiventare finalmente “scienze della natura”, che devono confrontarsi con la molteplice ricchezza dei fenomeni naturali che per molto tempo hanno creduto di poter trascurare”. (57)Questa convinzione è talmente radicata in Prigogine che egli, con perfetta coerenza, estremo rigore, e, per la verità, con qualche eccesso, ha assunto una posizione fortemente critica nei confronti delle attese, o meglio, come espressamente dice, delle “pretese” della fisica classica. Posizione che non solo è molto vicina a quella crociana, ma che, a mio parere, è anche molto piu radicale e piu drastica di essa. Non solo. Ma, provenendo da un grande scienziato di professione, essa non può essere tacciata, come è avvenuto per la posizione crociana, di “incompetenza” o di avversione filosofica preconcetta.L’analogia riguarda sia la connotazione “pratica” attribuita alla scienza classica sia l’evidenziazione dell’operazione di “manipolazione della realtà che essa ha operato.Come già aveva rilevato Croce, infatti, anche Prigogine sottolinea il fatto che nel rapporto che la fisica classica instaura con la natura, in effetti “si tratta di manipolare, di ‘fare una sceneggiatura’ della realtà fisica, per conferirle un’approssimazione ottimale nei confronti di una descrizione teorica. Si tratta di preparare il fenomeno studiato, di purificarlo, di isolarlo fino a che esso assomigli a una situazione ideale, fisicamente irrealizzabile, ma intelligibile per eccellenza, dal momento che incarna l’ipotesi teorica che guida la manipolazione”. (58)

Croce definiva questa operazione “descrizione tachigrafica sulla realtà viva e mutevole” (59), che il fisico fa allo scopo pratico di manipolare, dopo averlo reso “fisso” per l’occasione, ciò che per natura è in perpetuo divenire.Questa tendenza alla schematizzazione della natura è insita nella fisionomia della scienza classica, tanto è vero che Ë cominciata proprio con Galileo, il quale, a parere di Prigogine, ha fatto, nei confronti della natura, qualcosa di molto piu devastante di quello che indicava Kant: “l’ha idealizzata, cioè mutilata, fino a farle parlare il linguaggio che egli voleva ascoltare, un linguaggio matematico”. (60) Dal che Prigogine concludeva coerentemente che la pretesa “semplicità” della natura non è altro che l’”effetto dell’isolamento prodotto e voluto dalla sperimentazione”. (61)Queste considerazioni lo spingevano poi a delle affermazioni veramente drastiche, che lo portavano a dire, per esempio, che “ciò che la scienza classica tocca si dissecca o muore”; o ad aggiungere, ancora, e in maniera piu problematica, che “il carattere illegittimo dell’ideale di conoscenza cha finora aveva guidato la fisica moderna, comprese la meccanica quantistica e la relatività, ci sembra ormai acquisito. Una pagina della storia della fisica è stata definitivamente voltata”. (62)

Il nuovo corso annunciato e fermamente auspicato da Prigogine impone a suo parere un ripensamento complessivo, che coinvolga non solo l’esame dell’essenza della scienza classica, ma anche la riconsiderazione delle riflessioni e delle reazioni che ha via via suggerito o suscitato. Allo scopo egli ripercorre, sia pure per grandi tappe, la storia del pensiero occidentale e propone quella che potremmo definire una sorta di rivalutazione di alcuni pensatori, assumendo una posizione che, come vedremo,è certamente inusuale per uno scienziato. Scrive, per esempio muovendo addirittura dalle origini del pensiero filosofico: “In risposta ai riduzionisti, per i quali la sola’causa’ dell’organizzazione può essere unicamente la parte, Aristotele con la causa formale, Hegel con l’opera dello spirito, Bergson con l’atto semplice, irreprimibile, creatore d’organizzazione, hanno contrapposto la preminenza del tutto”. (63)Dei tre pensatori qui nominati sceglierò come esempio della riconsiderazione operata da Prigogine, il solo Hegel, sia per il ruolo che egli ha avuto nella formazione del pensiero crociano; sia, più in generale, perché non accade certo di frequente che un grande scienziato si rivolga a lui come una tappa essenziale del cammino che ha portato la scienza a una piu profonda consapevolezza metodologica e teorica.Il fatto è particolarmente significativo anche perché Prigogine contrappone espressamente Hegel al modo di procedere della scienza classica rilevando che egli costituisce “un esempio eminente di pensiero filosofico alla ricerca di una nuova coerenza contro il riduzionismo scientifico”. (64)Con questo intento, ricercando anche per essa la sua intrinseca concretezza, “la filosofia hegeliana […] integra la natura, ordinandola in livelli di crescente complessità nel quadro del divenire mondiale dello spirito”.

Si comprende facilmente, allora, il motivo per il quale un primo pregio fondamentale della filosofia hegeliana della natura è individuato da Prigogine nella esplicita contrapposizione alla scienza newtoniana, anzi nella battaglia che Hegel conduceva contro la concezione scientifica generale allora dominante. In proposito infatti notava: “Si può dire, in breve, che la filosofia hegeliana della natura inquadra in un sistema tutto ciò che era stato negato dalla scienza newtoniana, in particolare le differenze qualitative tra il comportamento semplice descritto dalla meccanica e quello degli esseri piu complessi come gli esseri viventi. Essa si oppone all’idea di riduzione , all’idea che le differenze sono soltanto apparenti e che la natura è fondamentalmente omogenea e semplice. Ad essa contrappone l’idea di una gerarchia nel cui seno ogni livello è condizionato dal livello successivo che manifesterà piu adeguatamente, in modo meno limitato, lo spirito dell’opera della natura”. (65)

Un secondo pregio consiste nel fatto che Hegel aveva capito che bisognava combattere non solo la scienza in generale, ma anche quello che essa, già per bocca di Galileo, aveva scelto come il proprio linguaggio per eccellenza: la matematica.Lungi dal condividere la celeberrima affermazione galileiana secondo cui “il libro della natura è scritto in caratteri matematici”, Hegel comprese perfettamente la “irriducibilità” dei molteplici livelli della realtà alla semplicità matematica. Infatti, “contrariamente agli autori newtoniani dei ‘romanzi della natura’ dei panorami mondiali che andavano dalle interazioni gravitazionali fino alle passioni umane, Hegel sapeva perfettamente che questa idea delle distinzioni dei livelli doveva fondarsi contro la scienza matematica della natura del suo tempo. Egli avrebbe cercato di limitare la portata di questa scienza, vale a dire, dimostrare che le possibilita di matematizzare i comportamenti fisici si limitano ai comportamenti piu banali”. (66) Prigogine riporta quindi qualche esempio a supporto dell’argomentazione di Hegel e chiarisce quelle che sono, a suo avviso, le ragioni che ne determinano l’insuccesso; quindi conclude la sua “rivalutazione” precisando che, con esplicito riferimento al “sistema” di Hegel, intende “sottolineare come esso costituisca una risposta filosofica estremamente esigente e rigorosamente articolata al problema cruciale posto dal tempo e dalla complessità. Eppure, esso ha incarnato agli occhi di generazioni di scienziati, l’oggetto per eccellenza di repulsione e derisione”. (67)

Ma la direzione indicata da Hegel – e poi seguita, tra gli altri da Bergson e Whitehead, che Prigogine apprezza in modo particolare -è quella giusta; se è opportuno riconsiderare più seriamente la sua critica della scienza; allora altrettanto plausibile deve apparire l’intenzione di riesaminare con attenzione anche la posizione crociana e di ripercorrere la via tracciata in un nuovo contesto che poteva tenere conto della “reazione” scientista alla filosofia hegeliana. Plausibile almeno a chi ritiene degno della massima considerazione il discorso svolto da Prigogine e ragionevole il suo sforzo di storicizzare la scienza.E dunque alla posizione crociana ora conviene, conclusivamente, tornare, dopo questo lungo giro di esplorazione e di comparazione che, mi auguro, non sia stato un inutile “vagare per il bosco” attraverso sentieri destinati a restare “interrotti”, ma occasione di confronti e motivo di riflessioni che ora possiamo “raccogliere” e sintetizzare.

Il problema della “svalutazione” crociana della scienza

Il dialogo col Croce epistemologo può restare aperto e mostrarsi proficuo solo se, preliminarmente, viene sgombrato il campo da una serie di pregiudizi a lungo acriticamente accettati e che possono essere fugati se si tengono presenti alcune delle indicazioni suggerite dal discorso che abbiamo fin qui sviluppato.La prima di esseè relativa a una distinzione che attraversa tutte le pagine crociane: quella tra “filosofia scientifica”, fermamente, e a mio parere, giustamente, avversata; e filosofia della scienza o epistemologia, riguardo alle quali le analisi crociane concordano in buona e sostanziale parte, come abbiamo visto, non solo con quelle dei convenzionalisti e degli empiriocriticisti, ma anche con quelle di autorevoli scienziati che hanno espresso le loro convinzioni in data posteriore rispetto a quelle crociane.La seconda indicazione suggerisce la constatazione per la quale anche la sua concezione filosofica storicistica presenta profonde affinità con scienziati di formazione cosiì diversa rispetto alla sua come, appunto, Prigogine. Affinità che riguardano sia aspetti teorici essenziali, sia riferimenti a fonti comuni, come Hegel e Bergson. Questo invita, ovviamente, ad essere perlomeno molto piu cauti nel ripetere l’ormai trito luogo comune relativo alla pretesa svalutazione “preconcetta” di Croce nei riguardi della scienza.C’è inoltre da sottolineare con forza che la duplice convergenza rilevata non avviene al di fuori dell’ambito di una concezione “razionale ” della realtà, ma nel contesto di concezioni più ampie, più comprensive e soprattutto più “concrete” di razionalità.Mi riferisco, per esempio, a quella concezione della razionalità che rimanda alla ragione storica teorizzata da Hegel: a quella ragione storica che ci ha insegnato che “il vero è l’intero”; che esso cioé non deve essere identificato solo con l’astratto “risultato” finale, ma anche soprattutto col “processo che porta al risultato” e che trasforma veramente la conoscenza da pretesa acquisizione “immediata” in concreto possesso “mediato”. (68)Concezione questa, che in ambito scientifico ha avuto una sorta di corrispettivo, perlomeno negli “effetti” , in una teorizzazione che pure per molti versi le è completamente estranea. Mi riferisco, questa volta, a quella “logica della complementarietà” di Niels Bohr che a mio parere rappresenta una sorta di perfetta corrispondenza, in ambito scientifico, di quella che è stata la logica hegeliana in ambito filosofico; perché come Hegel ha costretto i filosofi a “cambiare logica”, altrettanto ha fatto Bohr con i fisici; così come la logica hegeliana ha rappresentato il passaggio obbligato per lo storicismo, quella enunciata da Bohr ha costituito il punto di svolta verso la crisi nella convinzione della “veridicità oggettiva” dell’enunciazione astratta e univoca.In questo modo esso ha aperto la via verso una concezione storicista della realtà e ha stimolato la ricerca di quella “nuova alleanza” tra uomo e natura che Prigogine persegue con tanta convinzione, attraverso un percorso che consenta il passaggio “dall’essere al divenire”.Quel passaggio, cioè, che faccia definitivamente comprendere che il “tempo” nonè un “parametro” dei fenomeni fisici, ma li “costituisce” intrinsecamente qualificandoli appunto, come “strutturalmente” storici, secondo una convinzione che ormai si va diffondendo prepotentemente tra i fisici contemporanei più consapevoli.Ne è un esempio, tra i tanti, uno dei più noti ed originali allievi di Niels Bohr, John Archibald Wheeler. Questi, in un’opera specialistica scritta in collaborazione con Edwin Taylor e intitolata Spacetime Physics (69), poneva a epigrafe del terzo capitolo (The Physics of curved Spacetime) un brano di Croce tratto da La storia come pensiero e come azione, il quale recita: “Solo il giudizio storico libera lo spirito dalla stretta del passato; esso mantiene la sua neutralità, ed attende unicamente a fornire luce”.(70)Questo esplicito riconoscimento allo storicismo è stato successivamente ribadito con apprezzamenti nei confronti del pensiero di Giambattista Vico e con la dichiarazione con la quale Wheeler affermava che aveva fatto propria la convinzione metodologica crociana secondo la quale “il miglior approccio a qualsiasi problema umano è l’approccio storico”. (71)Considerato tutto ciò, “dimenticare Croce” significa allora dimenticare sia la parte migliore dell’epistemologia italiana ( penso, per esempio, a Giovanni Vailati), con la quale Croce esplicitamente consentiva (72), sia anche quella parte fondamentale dell’epistemologia del Novecento espressa dai fisici quantistici. E significherebbe, in quest’ultimo caso, imitare quei filosofi della scienza, sia pure notevoli come Popper e Lakatos, i quali, per salvare le loro tesi di fondo sono stati costretti a denigrare non solo l’epistemologia ma anche le teorie scientifiche dei fisici quantistici. (73) Il che era e continuerebbe a essere veramente troppo.Ripensare seriamente il Croce epistemologo significa invece utilizzare le sue meditazioni complessive come efficace antidoto sia alle posizioni genericamente “contro-metodologiche” e esasperatamente intuizionistiche di Paul Fayerbend (che ovviamente ha pure molti meriti e le cui tesi vanno dunque meditate anch’esse seriamente); sia, soprattutto, all’irrazionalismo sempre piu dilagante e, in particolare, alla critica “oracolare” della scienza di tipo heideggeriano.Se questa via sarà ritenuta praticabile e se attraverso di essa sarà possibile recuperare o rafforzare la fiducia in una razionalità di tipo “storicistico”, il conseguente risultato positivo sarà apprezzato anche da tutti quei filosofi della scienza formatisi indipendentemente dal pensiero di Croce ma che per la parte loro hanno anch’essi lottato tuttavia “per un nuovo razionalismo” che ci preservi sia dal “sonno” che dai “sogni” della ragione, i quali entrambi, come notavano rispettivamente il grande pittore Francisco Goya e il grande fisico francese Henry Poincaré, generano solo mostri.

Note

Questo lavoro si ispira ad una conversazione tenuta presso la Cattedra di Filosofia della Scienza dell’Università di Milano, ed è un estratto dalla successiva pubblicazione Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina, Messina 1995

(1) La ricerca, oltre in una serie di Saggi, si è concretizzata nella monografia: Filosofia e scienze nel pensiero di Croce, Giannini, Napoli 1984.

(2) Ho sviluppato questo tema nel lavoro citato. Per quanto riguarda invece la genesi di esso in C. Dilthey è sufficiente rimandare all’esauriente analisi di Giuseppe Cacciatore (Scienza e filosofia in Dilthey, Guida, Napoli 1976).

(3) Cfr. B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Laterza, Bari 1967, pp. 55-70. Su cui G. Gembillo, Croce e il problema del metodo, Pagano, Napoli 1991, pp. 11-35.

(4) B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza 1917, p. VIII

(5) Ivi, p. IX.

(6) Ivi, p. 141. Cfr. anche B. Croce, Saggio sullo Hegel, Laterza, Bari 1967, pp.3-142.

(7) Cfr. A. Aliotta, La reazione idealistica contro la scienza, L.S.E., Napoli 1970.

(8) Cfr. infatti K.R. Popper, I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza, trad. di M. Trinchero, Il Saggiatore, Milano 1087, pp181-225; Congetture e confutazioni, trad. di G. Pancaldi, Il Mulino, Bologna 1986, pp.169-206; 287-301; e I. Lakatos, La metodologia dei programmi di ricerca scientifica, trad. di M. D’gostino, Il Saggiatore, Milano 1935, passim.

(9) Cfr. P. Jordan, L’immagine della fisica moderna, trad. di F. Dossi e G.M. Prosperi, Feltrinelli, Milano 1964, p. 7; K.R. Popper, La logica della scoperta scientifica, trad. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1970. pp. 107-108. Su cui: M. M. Pera, Popper e la scienza su palafitte, Laterza, Bari 1982.

(10) Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, Laterza , Bari 1969, pp. 186-187 e 234-235.

(11) B. Croce, Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro, “Atti Acc. Pont.”, Napoli 1905, p.74

(12) B. Croce, Logica…, p. 217.

(13) Su ciò mi limito a rimandare a : M. Planck, Scienza, filosofia e religione, trad. a cura di F. Selvaggi, Fabbri, Milano 1965, pp.133-143; A. Einstein, Opere scelte, ed. a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988, pp. 118-135; N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, trad. di P. Gulmanelli, Boringhieri, Torino 1961, pp. 11-83.

(14) M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, trad. di E. Persico e A. Gamba, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p.71

(15) Cfr. M. Born, Le teorie statistiche di Einstein, in A. Einstein, Autobiografia scientifica, trad. di A. Gamba, Boringhieri, Torino 1979, p. 74.

(16) Cfr. L. De Broglie, Continu et discontinu en physyque moderne, Albin Michel, Paris 1941, in particolre le pp. 111-179.

(17) B. Croce, Lineamenti … , p. 196.

(18) Ivi, p. 197.

(19) Cfr. in particolare: B. Croce, Logica…, pp. 358-360.

(20) W. Heisemberg, Natura e fisica moderna, trad. di E. Casari, Garzanti, Milano 1985, pp. 38-39.

(21) Ivi, p.54.

(22) Ivi, p. 49.

(23) Ivi, p. 50.

(24) Ivi, p. 50.

(25) B. Croce, Logica…, p. 356.

(26) Ivi, p. 356.

(27) Mi limito a rimandare a: E. Cassirer, Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna, trad di G.A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze, 1970.

(28) Cfr. in particolare M. Planck, La conoscenza del mondo fisico…, pp. 79-93; F. Waismann, Tramonto e fine del concetto di causalità, in A. Crombie (a cura di) Svolte decisive in fisica, trad di M. Caldirola, Boringhieri, Torino 1961.

(29) W. Heisenberg, Indeterminazione e realtà, a cura di G. Gembillo, Guida, Napoli, 1991, p.66. Su questo cfr. G. Gembillo, Werner Heisenberg. La filosofia di un fisico, Giannini, Napoli 1987.

(30) Ivi, p. 66.

(31) Ivi, p. 66.

(32) Cfr. A. Einstein e M Born, Scienza e vita, trad. di G. Scattone, Einaudi, Torino 1973, p.15.

(33) Cfr. per esempio M.Planck, La conoscenza del mondo fisico…; E. Schroedinger, L’immagine del mondo, trad. di A. Verson, Boringhieri, Torino 1987; L. De Broglie, Les incertitudes d’Heisenberg e l’interprÈtation probabiliste de la mÈcanique ondulatoire, (a cura di G. Lochak), Gauthiers- Villars, Paris1982. Per una sintesi generale cfr. G. Gembillo, M. Galzigna, Scienziati e nuove immagini del mondo, Marzorati, Milano 1994.

(34) N. Bohr, I quanti e la vita, trad. di P. Gulmanelli, Boringhieri, Torino, 1974, p. 50.

(35) Cfr. E. Cassirer, Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna… Interessante l’attenta ricostruzione di A. Kojeve, L’idÈe du dÈterminisme dans la physique classique et dand la physique moderne (a cura di D. Auffret), L.G.F., Paris 1990.

(36) E. Mach, Conoscenza ed errore, trad. di S. Barbera, Einaudi, Torino 1982, p.135.

(37) Ivi, p.135.

(38) W. Heisenberg, Oltre le frontiere della scienza, trad. di S. Buzzoni, Ed. Riuniti, Roma 1984, p. 168.

(39) Ivi, p.168.

(40) Ivi, p. 105.

(41) Ivi, p. 106.

(42) P. Jordan, L’immagine della fisica moderna…, p.28.

(43) W. Weisemberg, ,Oltre le frontiere della scienza…,p. 117.

(44) Ivi, p.117.

(45) A. Einstein e M. Born, Scienza e vita…, p.114.

(46) M. Planck, La conoscenza del mondo fisico…, pp. 235-259.

(47) W. Heisemberg, Mutamenti nelle basi della scienza, trad. A. Verson, Boringhieri, Torino 1978, p. 94.

(48) Ivi, p. 94.

(49) Ivi, p. 94. Cfr. E. Du Bois-Reymond, I confini della conoscenza umana, trad. di V. Cappelletti, Feltrinelli, Milano 1973, p. 12.

(50) B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari 1965, p. 34.

(51) B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguisica generale, Laterza, Bari 1965, p. 34.

(52) Cfr. N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana… pp. 323-353.

(53) I. Prigogine I. Stengers, Tra il tempo e l’eternità, trad. di C. Tatasciore, Bollati Boringhieri, Torino 1969, p.24.

(54) H. Gadamer, Il problema dela coscienza storica, trad. di G. Bartolomei, Guida, Napoli 1974, p.28.

(55) B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1966 (ed. ec.) p. 53.

(56) I. Prigogine J. Stengers, Tra il tempo e l’eternità… p.25.

(57) I. Prigogine J. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, trad. di P.D. Napolitani, Einaudi, Torino 1993, p. 281.

(58) Ivi, p. 41.

(59) B. Croce, Logica…, p.224.

(60) I. Prigogine I. Stengers, La nuova alleanza. Uomo e natura in una scienza unificata, trad. di R. Morchio, Longanesi, Milano 1979, p.255. Si tratta di un testo, precedente a quello citato nella nota 57, che raccoglie interventi di autori vari.

(61) Ivi, p. 225.

(62) I. Prigogine I. Stengers, Tra il tempo e l’eternità…, p. 9.

(63) I. Prigogine I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza…, p.166.

(64) Ivi, p.94.

(65) Ivi p. 94.

(66) Ivi, p. 94.

(67) Ivi, p. 95.

(68) Cfr. ovviamente G.G.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp.1-23.

(69) Cfr. J.A. Wheeler E.F. Taylor, Spacetime Physics, Freeman, San Francisco 1963, p. 175. Ringrazio, per questa segnalazione l’amico Enrico Giannetto, fisico con il gusto e la pratica della storia della scienza.

(70) B. Croce, La storia come pensiero e come azione…, p. 37.

(71) Cfr. G. Gembillo, Incontro con lo scienzito americano John Wheeler, “Napoli oggi”, 15-7-1984.

(72) Per un approfondimeneto di questo confronto: G. Gembillo, Croce e il problema del metodo…, pp. 37-57.

(73) Cfr. in particolare: I. Lakatos, La metodologia dei programmi di ricerca scientifica…; K.R. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica III. La teoria ei quanti e lo scisma della fisica, ed. a cura di A. Artosi, Il Saggiatore, Milano 1984.

(73) Cfr. in particolare: I. Lakatos, La metodologia dei programmi di ricerca scientifica…; K.R. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica III. La teoria ei quanti e lo scisma della fisica, ed. a cura di A. Artosi, Il Saggiatore, Milano 1984.

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