La fisica secondo Anderson

La fisica non è la regina di tutte le scienze. E la fisica delle particelle non permette di capire tutte le proprietà degli oggetti che ci circondano. Strano che a parlare in questo modo, contro una visione strettamente riduzionista della scienza e contro l’arroganza di molti fisici delle particelle, sia stato proprio un fisico. Philip W. Anderson, premio Nobel nel 1977 per aver spiegato il fenomeno che permette a certi metalli di trasformarsi da conduttori elettrici in isolanti, era a Trieste due settimane fa. E, ospite della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, ha intrattenuto scienziati e giornalisti raccontando la sua visione del mondo e della scienza.

Anderson deve la sua celebrità nel mondo accademico, oltre che al premio Nobel, al “principio delle proprietà emergenti” che ricavò dalla biologia ed estese alla fisica. Descrisse la sua idea per la prima volta nel 1972 in un articolo, rimasto famoso tra gli addetti ai lavori, pubblicato sulla rivista Science e intitolato “More is different”. Come nell’evoluzione nuovi organismi emergono naturalmente da organismi più semplici, allo stesso modo le proprietà che emergono in un nucleo atomico sono qualitativamente diverse da quelle dei singoli protoni che lo compongono.

Esiste una gerarchia lineare tra i livelli della natura. Le entità elementari di un livello obbediscono alle leggi del livello inferiore: i sistemi a molti corpi obbediscono alle leggi atomiche, le molecole alle leggi dei sistemi a molti corpi, le cellule alle leggi molecolari, e così via fino alle forme viventi e ai sistemi sociali. “Ma ciò non implica sempre”, afferma Anderson, “che le proprietà osservabili a un livello si possano dedurre dalle leggi fondamentali del livello sottostante”. I livelli di organizzazione della materia sono molti e, per comprendere le proprietà emergenti, si deve ammettere che per ogni livello sono necessarie nuove leggi, concetti e generalizzazioni che richiedono ispirazione e creatività.

Queste idee sono diventate negli anni ‘80 il manifesto dell’Istituto di Santa Fe, nato come organizzazione privata e fondata dal premio Nobel e fisico delle particelle Murray Gell-Mann nel 1984. Oltre ad Anderson, furono coinvolti nel progetto scienziati e ricercatori dalle diverse provenienze. L’obiettivo comune era studiare i sistemi complessi, quelli che emergono nelle intersezioni tra una disciplina e l’altra. Tuttavia Anderson si considera soprattutto un fisico della materia condensata e attualmente preferisce dedicarsi a problemi che hanno a che vedere con il suo campo piuttosto che seguire gli sviluppi delle ricerche che si continuano a svolgere a Santa Fe.

Anche perché, secondo Anderson, la scienza ha ancora molto da scoprire, soprattutto nel campo della fisica dello stato solido. Nonostante molti scienziati pensino che le teorie esistenti rispondano a tutte le domande possibili, “esistono ancora illimitate frontiere da ‘rosicchiare’ e cominciamo solo ora a intravvedere la vera complessità del mondo che ci circonda”. Se oggi si conoscono la maggior parte delle proprietà dei metalli e dei cristalli semplici, dei minerali o degli isolanti, ancora si comprende poco di sostanze della vita quotidiana come l’inchiostro o il latte. E pochissimo si sa dei meccanismi che regolano la materia vivente.

Purtroppo, lamenta Anderson, la ricerca in questi nuovi settori non è sostenuta da finanziamenti massicci come avviene in altri campi. Tali squilibri nascono prima di tutto dal fatto che la società e la burocrazia preferiscono finanziare progetti che abbiano applicazioni pratiche immediate. Vi sono poi settori malati che, secondo Anderson, ricevono un sostegno eccessivo rispetto ai risultati delle ricerche. Un esempio è la fisica tradizionale dello stato solido, campo in cui gli scienziati pubblicano un enorme numero di articoli, anche se non sempre dimostrano sufficienti competenze.

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