L’altra faccia dei biobrevetti

Dopo dieci anni di discussioni, martedì l’Unione europea ha deciso: piante e animali possono essere brevettati. Come pure i frammenti di Dna e le singole parti del corpo umano, purché “isolate o prodotte in modo diverso mediante un procedimento tecnico”. Sì anche alla sperimentazione su embrioni umani, a patto di non clonarli né usarli a fini commerciali. Per i Verdi è la “direttiva Frankestein”, che aprirà la strada alla manipolazione genetica selvaggia e alla proprietà privata su embrioni e parti di persona. Secondo l’Efpia, invece, (la federazione europea delle industrie e delle associazioni farmaceutiche) la vittoria schiacciante del partito dei brevetti permetterà all’Europa di stare al passo col progresso scientifico mondiale.

“Patients need patents”, i malati hanno bisogno dei brevetti. E’ lo slogan delle compagnie biotecnologiche e di molti ricercatori: senza brevetti non si può fare ricerca, senza ricerca non si trovano nuove cure. Renato Dulbecco, genetista e premio Nobel per la medicina, ne è convinto: “La ricerca ha bisogno di fondi immensi, specialmente in campo medico o agroalimentare. Un farmaco può richiedere dieci anni di lavoro e una spesa di 400 milioni di dollari. Nessuna società potrebbe investire nella ricerca senza la garanzia di un ritorno economico adeguato. Ecco perché servono i brevetti”.

Ma secondo ambientalisti, Verdi e comunisti, principali oppositori del progetto di legge, a vincere non è affatto il progresso scientifico, bensì la lobby delle compagnie biotecnologiche. “Non vogliamo in nessun modo impedire la ricerca”, dichiara a Galileo Fiorello Cortiana, senatore dei Verdi e vicepresidente della commissione Agricoltura del senato, “né sottovalutare gli aspetti positivi delle biotecnologie, come i vaccini e i nuovi farmaci. Sappiamo che gli interessi industriali sono legittimi. Ma mentre per i nuovi farmaci esiste un periodo di verifica anche sul lungo periodo, nel caso delle biotecnologie nel settore agricolo tale sperimentazione è stata completamente aggirata”. E il Nobel per la letteratura Dario Fo, che aveva protestato a Strasburgo vestito da uomo-maiale e da grifone (leggendaria chimera metà aquila e metà leone), ha commentato: “Le multinazionali hanno vinto grazie alla disinformazione. Ora, tramite il copyright, saranno padrone incontrastate della biotecnologia”.

In effetti, un aspetto cruciale del problema è proprio quello delle conseguenze economiche e sociali dei brevetti biotecnologici. Ed è un peccato che il dibattito abbia assunto invece sui giornali i toni di una rissa in cui una parte evocava lo spettro di mostri mutanti o “embrioni umani clonati senza cervello per fornire pezzi di ricambio per i trapianti”, mentre l’altra rispondeva minimizzando la discussione come frutto di sottocultura scientifica e oscurantismo. Peccato, perché così facendo si è ridotto a provinciale un problema che invece è centrale per l’economia globale: come verrà garantita la sicurezza alimentare e sanitaria nei paesi poveri quando si diffonderanno medicine e semi per l’agricoltura con il copyright?

La polemica sui brevetti farmaceutici e biotecnologici è vecchia di anni. Ed è una questione tanto importante che gli Stati Uniti di George Bush, nel 1992, rifiutarono di firmare la Convenzione di Rio sulla Biodiversità: niente trattati, dissero, finché i paesi del Terzo mondo non accettano di pagare le royalties sui farmaci e le piante brevettate dalle multinazionali. Oggi chi vuole entrare nel commercio mondiale deve sottostare alle regole del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), l’accordo internazionale entrato in vigore in molte nazioni nel 1995, che obbliga i paesi a garantire, tra l’altro, “protezione legale alle varietà di piante, o per mezzo di brevetti oppure tramite altri sistemi sui generis, o tramite una combinazione dei due”.

I governi devono anche ammettere la brevettabilità dei microrganismi e dei processi microbiologici o non-biologici legati alle biotecnologie, mentre è lasciata loro la scelta se far brevettare anche le piante e gli animali e i processi biologici per la loro produzione. Decine di paesi in via di sviluppo, come l’India o il Brasile, hanno lottato a lungo contro queste clausole, che minacciano di aprire la strada alla biopirateria, la corsa alla brevettazione di piante indigene da parte di compagnie multinazionali. I paesi che non hanno ancora accesso alle biotecnologie temono di vedere scippate le proprie risorse biologiche e agricole.

I Verdi hanno aperto la discussione a questi aspetti. Travestiti da pirati, hanno esposto i rischi che la direttiva porrebbe per i paesi in via di sviluppo. “Avevamo presentato 51 emendamenti”, racconta Cortiana, “riguardavano aspetti non solo etici, ma anche economici, scientifici e geopolitici: questa direttiva potrà provocare squilibri nell’emisfero Sud, ma anche nell’agricoltura europea. Nessuno degli emendamenti è stato accolto: i parlamentari europei non hanno tenuto in nessun conto il rapporto con il Parlamento italiano, che si era pronunciato contro l’approvazione della direttiva. Le lobby delle grandi case hanno svolto un ottimo lavoro di propaganda: in tre anni sono state in grado di rovesciare completamente il giudizio nei confronti della direttiva, che inizialmente era negativo da parte di diversi paesi”.

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