Dal fotone al quantum dot

Alla fine del XIX secolo la fisica classica venne a trovarsi in profonda crisi, in una vera e propria situazione di stallo. Nella storia della scienza tale periodo viene indicato come quello della «catastrofe dell’ultravioletto». Tutto era cominciato quando si cercò di dare una sistemazione teorica ai numerosi dati sperimentali, che erano stati raccolti nel corso di molti anni circa l’emissione del calore radiante da parte delle superfici riscaldate. In particolare si era studiata a fondo la radiazione emessa dal cosiddetto «corpo nero», un ipotetico corpo che poteva assorbire tutte le radiazioni in arrivo senza rifletterne alcuna. Un modello abbastanza calzante di un tale corpo era stato individuato da Gustav Kirchoff nella bocca dei forni per la cottura del pane, la cui piccola apertura appariva alla vista sempre molto oscura a causa del fatto che la luce entrante veniva assorbita nella grande cavità posteriore senza avere più la possibilità di riemergere.

Tuttavia quando le pareti della cavità vengono portate ad alta temperatura, la bocca del forno appare di colore rosso più o meno brillante a seconda della temperatura, T, raggiunta dalle pareti. Lo studio sperimentale della radiazione calorica emessa dalla bocca del forno aveva portato alla certezza che le caratteristiche della radiazione emessa non dipendevano dal materiale con cui erano fatte le pareti interne del forno, ma soltanto dalla loro temperatura. Era stata anche sperimentalmente individuata la distribuzione spettrale della radiazione emessa, il cui andamento mostrava una zona crescente a partire dalle basse lunghezze d’onda fino a raggiungere un massimo e poi una parte decrescente fino a zero per grandi valori della lunghezza d’onda.

Lo studio della radiazione di corpo nero aveva anche portato a formulare alcune leggi empiriche di grande importanza pratica. La legge di Stefan-Boltzmann (P = s T4) permetteva di stimare la densità della potenza radiante emessa dal forno mediante la conoscenza della sola temperatura del forno, nota che fosse la costante di Stefan, s. La legge di Wien (lmax×T = costante), detta dello «spostamento del massimo», collegava alla temperatura del forno la posizione del massimo della distribuzione spettrale lungo la scala delle lunghezze d’onda, l. Infine, era stata elaborata da James Jeans e John Rayleigh per via termodinamica una teoria, che portava alla legge di radiazione appunto detta di Rayleigh-Jeans. Questa legge descriveva accuratamente l’andamento decrescente della distribuzione spettrale alle grandi lunghezze d’onda, ma si scostava fortemente dalla curva sperimentale mano a mano che la lunghezza d’onda veniva ridotta. Già prima di raggiungere le lunghezze d’onda corrispondenti al massimo della distribuzione spettrale la discordanza era notevole, ma la divergenza aumentava ancora di più per le basse lunghezze d’onda.

Qualunque tentativo fatto sulla base delle conoscenze della fisica di quel tempo portava allo stesso risultato, analogo alla teoria di Jeans: per le basse lunghezze d’onda. Si aveva, cioè, che la descrizione teorica della distribuzione spettrale tendeva ad allontanarsi fortemente dalla curva sperimentale nella zona dei raggi ultravioletti. Ciò portava all’assurdo fisico che l’energia emessa dal corpo nero alle basse lunghezze d’onda avrebbe dovuto essere sempre più grande, tendendo all’infinito per valori di l vicini allo zero. Poiché le basse lunghezze d’onda sono quelle associate alle radiazioni ultraviolette, si indicò il fenomeno della divergenza come la «catastrofe dell’ultravioletto». Il termine «catastrofe», più che essere indirizzato alla teoria della radiazione, era chiaramente rivolto all’edificio costruito con tutte le conoscenze della meccanica e della termodinamica, che erano state accumulate dai fisici fino alla fine del secolo. L’intera fisica, chiamata poi classica, si dimostrava incapace di descrivere accuratamente i fenomeni naturali associati all’energia radiante.

L’ipotesi di Planck

Proprio a cavallo del nuovo secolo, Max Planck ripeté il tentativo teorico di Rayleigh-Jeans, introducendo nei calcoli una nuova ipotesi, che lo stesso Planck considerò un semplice artificio matematico, necessario per rimuovere la divergenza nelle legge di radiazione [1]. Egli assunse che l’energia emessa dal corpo nero fosse costituita da un numero infinito di piccoli contributi, tutti multipli interi di una stessa quantità, cioè di un «quantum», e0. Applicando questa ipotesi, Planck pervenne a una formula che completava la legge di Jeans e, soprattutto, eliminava la divergenza nell’ultravioletto. In più, confrontando il risultato con la legge di Wien, egli poté dimostrare che il valore del quantum d’energia doveva essere espresso da una relazione di proporzionalità con la frequenza n dell’onda della radiazione emessa, cioè che fosse e0 = hn, dove la costante di proporzionalità h fu poi comunemente indicata come costante di Planck. Subito fu dimostrato che tutte le leggi empiriche precedenti potevano essere ricavate dalla nuova legge di radiazione del corpo nero come casi particolari. Infine, alla prova dei dati sperimentali, la legge di Planck si dimostrò talmente aderente da permettere di ricavare anche le diverse espressioni teoriche delle varie costanti, sia quelle di Stefan e di Wien, sia quelle che comparivano nella legge empirica della distribuzione spettrale, dette costanti di radiazione.

Nonostante questo successo, i maggiori scienziati dell’epoca, compreso lo stesso Planck, si rifiutarono di considerare che il quantum di energia potesse essere l’espressione di una realtà fisica ancora nascosta e con il motto «natura non facit saltus» accettavano soltanto la presenza del quantum come un puro artificio matematico, adottato per superare la «catastrofe dell’ultravioletto». Pertanto, essi continuarono a cercare altri modi più ortodossi per descrivere in termini classici il comportamento della radiazione di corpo nero, ma tali tentativi vennero regolarmente inficiati dai dati sperimentali.

Einstein e l’effetto fotoelettrico

Sempre alla fine del XIX secolo, era stato osservato e descritto il fenomeno della emissione di elettroni dalle superfici metalliche, quando esse vengono colpite dai raggi ultravioletti. Tale fenomeno era comunemente indicato come effetto fotoelettrico. Il suo studio aveva portato ad alcune acquisizioni empiriche di carattere generale, che consistevano essenzialmente in tre fatti. In primo luogo la luce normale dello spettro visibile non provocava emissione di elettroni dal metallo. Al diminuire della lunghezza d’onda, quando si raggiungeva il campo dell’ultravioletto, si cominciava a registrare l’emissione di elettroni. In generale, non si osservava l’uscita di alcun elettrone dal metallo fintanto che la radiazione ultravioletta non possedeva un certo valore della lunghezza d’onda. Tale valore era caratteristico del tipo di metallo sotto osservazione. Tutte le lunghezze d’onda più basse del valore tipico davano luogo a emissione di elettroni.Inoltre l’energia cinetica degli elettroni emessi era distribuita tra di essi in modo continuo dal valore zero fino a una certa energia massima, al di là della quale non si trovava più alcun elettrone. Il valore di questo massimo era inversamente proporzionale alla più breve lunghezza d’onda presente nel fascio delle radiazioni ultraviolette usate.Infine l’energia cinetica degli elettroni non dipendeva dall’intensità della radiazione ultravioletta, mentre il loro numero era proporzionale a essa.

La formula empirica, elaborata per collegare in modo logico tutte le proprietà elencate del fenomeno, era molto semplice e veniva riassunta dalla legge detta dell’effetto fotoelettrico: E = (costante/l) – Westrazione dove E è l’energia cinetica degli elettroni emessi e Westrazione è il lavoro da compiere per estrarre l’elettrone dalla superficie del metallo. Questo parametro, che ha un valore caratteristico per ogni materiale, era stato misurato accuratamente per tutti i metalli. Esso rende conto dell’energia che bisogna spendere per vincere la forza di Coulomb che mantiene gli elettroni all’interno del metallo.

Come si vede, si tratta di una legge molto semplice. Tuttavia essa non è teoricamente ricavabile dalle leggi della fisica classica. Anche in questo caso, tutti i tentativi fatti fino al 1904 non avevano portato ad alcun risultato.

Nel 1905, contestualmente ad altri due fondamentali lavori, dei quali il più noto è quello della teoria della relatività ristretta e l’altro è la spiegazione del moto browniano, Albert Einstein pubblicò un breve articolo sugli Annalen der Physik in cui era data la spiegazione teorica dell’effetto fotoelettrico [2]. La spiegazione era molto semplice. Essa richiedeva «soltanto» un’acquisizione concettuale nuova e rivoluzionaria, che era da qualche anno sotto gli occhi di tutti senza che la sua importanza fosse riconosciuta. Si trattava dell’artificio escogitato da Planck per ricavare la legge di emissione del corpo nero. Einstein capì per primo che il quantum di Planck era l’espressione di un fatto reale e non un semplice artificio. La radiazione elettromagnetica, la cui natura ondulatoria veniva considerata come un dato indiscutibile, si comportava invece in modo contraddittorio, quando essa interagiva con la materia a livello atomico.

In questo tipo d’interazioni il suo comportamento rivelava una natura corpuscolare. In termini moderni, Einstein comprese che la struttura fine del campo elettromagnetico era granulare e che il quantum di Planck rappresentava l’energia associata a ciascun corpuscolo elementare, a cui fu poi dato il nome di fotone. Il collegamento con tutte le leggi precedenti ricavate con la teoria ondulatoria era assicurato dal fatto che l’energia del fotone era proporzionale alla frequenza dell’onda elettromagnetica, era cioè inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda.

La spiegazione dell’effetto fotoelettrico diveniva così immediata. La radiazione incidente è composta da un insieme di corpuscoli elementari, i fotoni, che cadono come una pioggia sulla superficie metallica. Un fotone colpisce un elettrone appena sotto la superficie del metallo e gli cede tutta la sua energia. Se tale energia supera il lavoro d’estrazione, l’elettrone si può liberare dal metallo e uscire all’esterno con un’energia cinetica pari alla differenza tra quella del fotone incidente (hn) e quella spesa per l’estrazione. Pertanto l’elettrone possederà l’energia cinetica: E = (hn) – Westrazione = (hc/l) – Westrazione dove si è applicata l’equivalenza (n = c/l), con c che rappresenta la velocità della luce. Confrontando con la precedente si vede che le due espressioni sono identiche se si assume che il valore della costante sia uguale al prodotto hc, cosa che è stata puntualmente verificata dalle osservazioni sperimentali.

Vengono così spiegate le ragioni delle caratteristiche empiriche del fenomeno, compresa quella, che per la fisica classica appariva come la più assurda, l’indipendenza cioè dell’energia dell’elettrone dall’intensità della radiazione incidente. Infatti, nella visione quantistica, una maggiore intensità è associata a un maggior numero di fotoni incidenti e non a una maggiore energia posseduta da ciascun fotone. Questa invece rimane sempre pari ad hn. E’ chiaro che, a un maggior numero di fotoni incidenti, corrisponde un maggior numero di elettroni emessi come osservato negli esperimenti.Per digerire questa brillante spiegazione, o piuttosto per assimilare il fatto della natura discreta della radiazione e dell’esistenza dei fotoni, il mondo accademico impiegò la bellezza di 16 anni, fino al 1921, quando fu assegnato ad Einstein il Premio Nobel per la fisica. Il Nobel era motivato proprio per la spiegazione dell’effetto fotoelettrico e del moto browniano e non, come si crede erroneamente, per la teoria della relatività.

L’effetto fotovoltaico

Il mondo fotovoltaico deve riconoscenza ad Einstein per un duplice motivo. Infatti, da un lato, l’applicazione della relazione dell’effetto fotoelettrico fornisce uno strumento molto semplice per comprendere i fenomeni di interazione tra la radiazione solare e i materiali semiconduttori con cui sono realizzate le celle fotovoltaiche, dall’altro lato, la meccanica quantistica, che si è sviluppata sulla base della nuova visione einsteiniana della natura quantizzata del campo elettromagnetico, ha portato all’elaborazione della teoria della struttura della materia e alla formulazione del modello delle bande energetiche per gli stati di energia permessi alle cariche all’interno dei materiali semiconduttori. Sulla base di queste conoscenze e di un altro prodotto delle teorie quantistiche rappresentato dalla legge statistica di Fermi-Dirac, è stata elaborata intorno al 1950 da William Shockley la teoria del diodo a giunzione np nei semiconduttori [3], cosa che ha permesso di spiegare in modo molto accurato i fenomeni di raccolta delle cariche, formate dall’interazione fotoelettrica all’interno dei diodi. Si ha così che, ogni volta che vogliamo calcolare la quantità di corrente generata dalla radiazione solare all’interno di una cella fotovoltaica, dobbiamo far ricorso ad Einstein e alla sua spiegazione dell’effetto fotovoltaico, che in questo caso assume la forma: E = hn – EG Dove EG rappresenta il salto di energia esistente tra la banda di valenza e quella di conduzione, cioè la larghezza della banda degli stati energetici proibiti per gli elettroni.

La radiazione incidente sulla cella fotovoltaica colpisce un elettrone all’interno della banda di valenza e gli cede la sua energia hn. Se tale energia è superiore alla larghezza della banda proibita EG, l’elettrone può saltare nella banda di conduzione conservando un’energia cinetica pari a (hn – EG). A questo punto esso è libero, non più legato a un atomo, e quindi disponibile per essere raccolto da un campo elettrico. Qui incontriamo il nome di Alessandro Volta. Infatti il campo elettrico per la raccolta delle cariche viene fornito dall’antico effetto Volta, cioè dalla differenza di potenziale che si crea all’interfaccia tra due zone di materiali diversi posti in intimo contatto. Nel caso specifico, il campo voltaico viene creato all’interfaccia della giunzione np esistente nel semiconduttore. Per inciso, anche l’effetto Volta, che era stato spiegato in modo molto elaborato mediante il ricorso alla chimica-fisica classica, trova una sua spiegazione semplice e immediata utilizzando la meccanica quantistica e la distribuzione statistica di Fermi.In conclusione, senza voler sminuire il merito di Daryl Chapin, Calvin Fuller and Gerald Pearson per l’invenzione della cella fotovoltaica del 1954 [4], questo innovativo componente porta con sé il contributo determinante di Volta e di ben tre premi nobel, in ordine di tempo, Einstein, Fermi e Shockley.

Senza di essi sarebbe oggi impossibile capire il funzionamento dei dispositivi fotovoltaici e soprattutto costruire su di essi una tecnologia industriale capace di portare a una nuova fonte di energia.

Le nanotecnologie

Vanno sotto questo nome le attività tecnologiche che hanno per oggetto la manipolazione di materiali aventi dimensioni piccolissime, appunto dell’ordine del nanometro (10-9m), cioè del miliardesimo di metro o del milionesimo di millimetro.Limitandoci a considerare i materiali semiconduttori, si osserva che particelle di dimensioni nanometriche contengono un numero di atomi dell’ordine di 10-100 unità. Questi agglomerati atomici conservano la loro struttura cristallina e per questo vengono chiamati nanocristalli. Tuttavia, l’applicazione della meccanica quantistica porta in questo caso a significative differenze nella determinazione degli stati energetici permessi agli elettroni di valenza rispetto alla situazione dello stesso materiale quando è in forma massiccia.

E’ ancora presente una struttura di bande, ma i livelli energetici all’interno della banda sono tra loro separati. Tra le varie conseguenze, questo fatto porta a un allargamento della banda proibita, cosicché il nano cristallo, anche se da un punto di vista chimico è sempre costituito dallo stesso materiale, possiede proprietà optoelettroniche abbastanza diverse. Per esempio, tutti sanno che il silicio ha una banda proibita di 1.1 elettronvolt (eV): ebbene il suo corrispettivo come nanocristallo può arrivare fino 1.5 eV. Il fatto interessante è che la larghezza della nuova banda proibita dipende dalle dimensioni del nanocristallo, cioè dal numero di atomi che lo costituiscono. Si ha, cioè, la possibilità pratica di modulare (entro certi limiti) le proprietà optoelettroniche dei semiconduttori di partenza mediante il controllo delle dimensioni dei nanocristalli. Diviene così possibile progettare una nuova serie di materiali dalle proprietà fisiche adattabili alle esigenze della tecnologia. Per l’uso strumentale che fa della meccanica quantistica, nasce la cosiddetta «ingegneria quantistica dei materiali», più brevemente indicata come «ingegneria delle bande». Dal momento infine che il comportamento fisico dei nanocristalli non potrebbe essere descritto senza il ricorso alla meccanica quantistica, questi piccoli aggregati atomici, quasi puntiformi, sono stati chiamati con il termine inglese di quantum dots o, in italiano, «nanocristalli quantistici».

Ma veniamo al significato per il fotovoltaico dei quantum dots. Si ricorda che proprio per l’effetto fotoelettrico ogni semiconduttore riesce a sfruttare per la conversione fotovoltaica soltanto i fotoni che hanno energia superiore alla banda proibita. In particolare il silicio è sensibile soltanto alle radiazioni dello spettro solare che hanno lunghezza d’onda inferiore a 1.14 micron, cioè a una stretta fascia di componenti dello spettro, quelle che vanno dal violetto all’arancione. Per tutta la parte dello spettro che va dal rosso all’infrarosso vicino e lontano, il silicio risulta praticamente trasparente. In conclusione, il silicio riesce a sfruttare per la conversione fotovoltaica soltanto una parte piccola dello spettro solare, all’incirca il 40 per cento del totale. E’ evidente allora che l’efficienza di conversione delle celle al silicio parte penalizzata da questo taglio iniziale e ciò si traduce nel fatto che il limite teorico massimo per l’efficienza raggiunge soltanto il 27 per cento. Il valore sperimentale massimo del 24.7 per cento raggiunto faticosamente in laboratorio nel corso degli anni testimonia della presenza di questo limite [5].

Per poter utilizzare anche il restante 60 per cento dell’energia contenuta nello spettro solare, si è fatto finora ricorso all’artificio delle celle multigiunzione. Il concetto consiste nel far assorbire la radiazione solare da un dispositivo costituito da un gruppo di celle poste in cascata, in modo che ciascuna cella (realizzata con un diverso semiconduttore) possa sfruttare al meglio una fetta dello spettro solare lasciandosi attraversare dalla parte rimanente, che a sua volta potrà essere sfruttata dalle altre celle. In teoria, si può pensare di realizzare un dispositivo ideale, costituito da un numero grandissimo di celle sovrapposte, ciascuna delle quali sia accoppiata a una fetta sottilissima dello spettro solare. L’efficienza teorica massima per un tale dispositivo, calcolata mediante la termodinamica, ha un valore intorno all’86 per cento [6]. Nella pratica, il concetto multigiunzione è stato ampiamente provato, avendo realizzato il record dell’efficienza di conversione del 34 per cento con un dispositivo costituito da tre celle sovrapposte realizzate con arseniuro di gallio, con fosfuro d’indio e gallio e con germanio. La tecnologia di fabbricazione del dispositivo è talmente costosa da imporne l’uso soltanto in connessione ai concentratori solari ad alta concentrazione. Inoltre, il passaggio successivo per l’aggiunta di una quarta cella onde aumentare ulteriormente l’efficienza si sta dimostrando tecnologicamente molto difficile, per cui non si pensa che sia possibile industrializzare il processo in modo economicamente competitivo.

Tuttavia, a prescindere dal costo, rimane il fatto che il concetto dei dispositivi multigiunzione, oltre a essere attraente sul piano teorico, funziona anche bene sul piano della pratica tecnica.A questo punto, torniamo ai quantum dots. Si è visto come, attraverso le nanotecnologie, sia possibile modificare le caratteristiche optoelettroniche dei semiconduttori naturali, ottenendo nuovi materiali dalle caratteristiche fotovoltaiche modellabili, entro certi limiti, a piacere. In pratica, esiste la possibilità di riuscire a realizzare nel prossimo futuro nanocristalli quantistici di vari semiconduttori, progettati in modo da essere accoppiabili a tutte le frequenze dello spettro solare. La deposizione dei nanocristalli in strati sottili sovrapposti con le stesse tecnologie utilizzate finora per i semiconduttori in film permetterebbe, in teoria, di ottenere dispositivi fotovoltaici multigiunzione di grande area, in grado di catturare la maggior parte delle componenti dello spettro solare. Per questi dispositivi innovativi, si è stimato che l’efficienza di conversione possa raggiungere valori intorno al 40 per cento (a livello di modulo fotovoltaico) con costi di materiale e di realizzazione bassi. Storicamente la tecnologia fotovoltaica delle celle al silicio cristallino è stata detta di prima generazione, mentre quella dei film sottili di silicio amorfo, di tellururo di cadmio e diseleniuro di indio e rame viene indicata come di seconda generazione.

La tecnologia dei quantum dots, che è appena iniziata, costituisce la terza generazione dei dispositivi fotovoltaici [7, 8]. Essa, ancora più delle precedenti, deriva direttamente dalle conoscenze di meccanica quantistica, che furono avviate da Einstein con l’intuizione del fotone.

Bibliografia

1.Planck M.,The Theory of Heat Radiation, Ed. Dover Publications, New York, 1959.

2.Einstein A., Ann. Phys, Vol.17, 1905, p.132.

3.Shockley W., «The Theory of p-n Junctions in Semiconductors and p-n Junction Transistors», Bell Syst. Tech. J., Vol. 28, 1949 p.435.

4.Chapin D. M., Fuller C. S., Pearson G. L. «A New Silicon p-n Junction Photocell for Converting Solar Radiation into Electrical Power», J. Appl. Phys., Vol.25, 1954, p. 676.

5.Green M. A., Emery K., King D. L., Igari S., Warta W., 2004, «Solar Cell Efficiency Tables» (Version 24), Prog. Photovolt. Res. ., Vol.12, pp.365-372.

6.Green M. A., Efficiency Limits for Photovoltaic Solar Energy Conversion, Proceedings of Conference PV in Europe – PV Technology to Energy Solutions, Rome, 7-11 October 2002, p.12.

7.Green M.A., Third Generation Photovoltaics, 2003 Annual Report, http://www.pv.unsw.edu.au/.

8.Green M.A., Third Generation Photovoltaics, Advanced Solar Energy Conversion, Ed. Springer-Verlag Berlin Eidelberg, 2003.

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