Un libro racconta l’eugenetica in Italia

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L’eugenetica, disciplina fondata dal cugino di Charles Darwin, il poliedrico Francis Galton, negli ultimi due decenni del XIX secolo, aveva come scopo “il miglioramento del materiale umano”. In molte nazioni, soprattutto in Germania, Scandinavia e negli Stati Uniti, questo dettato disciplinare fu interpretato in senso qualitativo, andando a individuare caratteri da migliorare con politiche di sterilizzazione forzata, emarginazione sociale ed eutanasia.

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Francesco Cassata, Molti, Sani e Forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, 2006, pp.396, euro 34,00.

A partire dagli anni Venti, in Italia l’eugenetica va verso una svolta quantitativa, “interessata alla tutela della maternità e alla prolificità delle famiglie”, con una convergenza di interessi tra dittatura fascista e Vaticano. È in questo momento storico che entrano in ballo alcuni dei protagonisti della lunga narrazione di questo volume: Corrado Gini e Nicola Pende. Demografo il primo, “biotipologo” il secondo, furono loro i principali artefici dell’ideologia eugenetica in Italia, contribuendo a creare le linee guida per un’eugenetica di stampo italiano che è andata ben oltre la caduta del regime fascista e la fine della Seconda Guerra Mondiale. Come ben documentato da questa dettagliata ricostruzione, infatti, l’eugenetica italiana ha avuto una nuova vita negli anni Cinquanta e Sessanta. Non solo sotto la forma di politiche volte a garantire un minimo di salute riproduttiva (come per esempio la consulenza genetica per le coppie a rischio di microcitemia) – legittime se rispettose dell’autonomia del paziente –, ma anche con il più classico e spaventoso vestito della differenziazione razziale e della segregazione razzista.

Gini, che pure rimase su posizioni non contrarie al meticciato, si diede molto da fare per costruire un’opposizione internazionale agli Statement on race dell’Unesco. Suo sodale in questa battaglia fu Luigi Gedda, presidente dell’Azione Cattolica, animatore dei Comitati Civici del 1948, fondatore dell’Istituto Mendel per lo studio dei gemelli, ammiratore di medici tedeschi che collaborarono direttamente con il nazista Josef Mengele, e genetista medico senza credito nella comunità scientifica. Un personaggio che grazie agli appoggi politici ed ecclesiastici riuscì non solo a creare un grande istituto, ma anche ad avere una cattedra all’Università di Roma.

Proprio le pagine che Cassata dedica a Gedda – e in particolare alle vicende del concorso per la cattedra – sono le più gustose. Oltre a raccontare una storia i cui contorni precisi sono stati ricostruiti solo ora grazie a nuovi archivi resisi disponibili, l’episodio è emblematico del modo in cui in Italia si è gestita (e in gran parte ancora si gestisce) la ricerca e il potere accademico, con i meriti scientifici che diventano un optional quando si tratta di assegnare un posto, un titolo, o dei fondi: molto più importante la protezione dei padrini, di qualsiasi colore essi siano. La commistione tra scienza e politica è d’altra parte evidente lungo tutto lo svolgersi del racconto, e non di rado le ipotesi scientifiche nascono direttamente da convinzioni di altra natura. Non occorre inoltre essere sottili filosofi per cogliere il carico di controllo sociale che l’eugenetica porta con sé: la biologia diventa a tutti gli effetti campo di battaglia per teorie politiche. Purtroppo, il tentativo autoritario di governo non è solo storia, ma anche cronaca.

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