A dieci anni dal bando

Anche la guerra ha le sue regole. Una di queste stabilisce che non tutti i mezzi per annientare il nemico sono leciti: vietato innanzitutto ricorrere ad armi chimiche e batteriologiche. Da dieci anni, nel rispetto del diritto internazionale, gli eserciti dei 182 paesi che hanno aderito alla Chemical Weapons Convention (Cwc) entrata in vigore il 29 aprile 1997, hanno escluso dal loro arsenale agenti chimici come i gas nervini (il sarin, il gas mostarda, la lewisite, il fosgene e il soman). A più di vent’anni dalla messa al bando delle armi batteriologiche (la Convenzione sulle armi batteriologiche, Btwc, è entrata in vigore nel 1975) la Cwc, che prevede la proibizione dello sviluppo, produzione, immagazzinamento e uso di armi chimiche e la loro distruzione, rese così effettiva la condanna di un’intera categoria di armi di distruzione di massa. Il bilancio della prima decade della Convenzione, come emerso dal convegno organizzato a Roma lo scorso 19 aprile dal Ministero degli Affari esteri e dall’Istituto degli Affari Internazionali, con il contributo di Green Cross Italia, è, nonostante alcuni punti critici, nel complesso positivo.

“Personalmente ritengo che il più importante risultato sia stato quello di rendere lo sviluppo, la produzione e l’utilizzo delle armi chimiche un tabù nel mondo”, dice Elio Pacilio vice presidente di Green Cross Italia, che elenca i principali obiettivi stabiliti dieci anni fa e già raggiunti: il 98 per cento dei paesi del mondo hanno aderito alla Cwc, 71.000 tonnellate di agenti chimici sono state dichiarate dai sei Stati che le detenevano in munizioni e contenitori, più del 25 per cento dei quali è stato distrutto, 12 Stati hanno dichiarato 65 ex stabilimenti di produzione di armi chimiche di cui 58 sono stati distrutti o riconvertiti. Inoltre 6.200 impianti di stoccaggio e produzione di materiale chimico sono stati dichiarati soggetti alle ispezioni dell’Opcw (l’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, diretta emanazione della Convenzione che ha il compito di verificare la distruzione degli impianti e la non proliferazione). “Ma ancora due grandi sfide ci attendono”, dice Pacilio: “Prima di tutto mantenere alta la sicurezza sui depositi di armi chimiche esistenti e continuare la distruzione nel modo più sicuro e rapido possibile. Ben 50.000 tonnellate in sei milioni di munizioni e di container devono essere ancora eliminate. Il secondo obiettivo è quello di puntare a raggiungere il 100 per cento delle adesioni tra i paesi del mondo”.

Traguardi non proprio dietro l’angolo, se pensiamo che per ora gli Stati Uniti sono riusciti a distruggere solo il 40 per cento delle proprie riserve, mentre la Russia è ferma al dieci per cento. Entrambi i paesi non rispetteranno pertanto la scadenza del 2012 imposta dalla Convenzione per la distruzione dell’intero arsenale, gli Usa anzi prevedono di non poter raggiungere l’obiettivo prima del 2023. Colpa dei costi elevatissimi dell’operazione: per risolvere il “caso Russia” servirebbero otto miliardi di dollari, troppi per le risorse del paese che deve allora fare affidamento alla Collaborazione globale (global Partnership) che però funziona a stento. L’Italia per esempio aveva promesso uno stanziamento di più di 300 milioni di euro, non ancora però giunti a destinazione. Neanche l’Albania, il paese con l’arsenale più piccolo, riuscirà a rispettare la data prevista per la distruzione, a causa di difficoltà tecniche.

“Questi ritardi non solo danneggiano la credibilità del trattato, ma possono dare luogo a eventi pericolosi”, sostiene Rein Mullerson docente di diritto internazionale all’Università di Londra, “Se le risorse dell’Opcw vengono per la maggior parte impiegate nel controllo della distruzione degli arsenali esistenti, necessariamente si presta minore attenzione alla realizzazione di nuove armi. Inoltre gli impianti in lenta dismissione possono diventare facile obiettivo di gruppi terroristici”.

Tutta in salita anche la strada per estendere all’intero pianeta il regime della Convenzione. Ancora 13 Stati infatti ne sono fuori, e si tratta di assenze politicamente significative: sette Stati non hanno firmato né ratificato (Angola, Corea del Nord, Egitto, Iraq, Libano, Somalia e Siria), mentre sei paesi sono firmatari ma non hanno ancora ratificato (Bahamas, Congo, Repubblica Domenicana, Guinea, Israele, Myanmar).

Ma le questioni che la Seconda Conferenza del Riesame dovrà affrontare nell’aprile del 2008 non finiscono qui. Alcuni passaggi della Convenzione sono, a detta degli esperti, troppo ambigui. Primo tra tutti quello riguardante le armi chimiche “non letali”, il cui utilizzo è vietato in guerra, ma consentito alle forze dell’ordine come dispositivi antisommossa (Riot control agents) per sedare rivolte interne e affrontare episodi di disordine pubblico. Si dovrebbe trattare di agenti chimici dagli effetti inabilitanti prontamente recuperabili. In realtà anche i gas lacrimogeni comunemente in dotazione alle polizie di tutto il mondo sono sospettati di avere effetti più gravi e permanenti. La definizione di non letalità si manifesta poi in tutta la sua ambiguità ogni qualvolta l’arma viene usata per stanare il nemico e poi ucciderlo. “E ancora è da chiarire in quali contesti queste armi possono essere usate”, afferma Natalino Ronzitti della Luiss, consigliere scientifico dell’Istituo Affari Internazionali. “Che accade se gli agenti chimici si impiegano in un campo di prigionieri di guerra? E in territori occupati? L’operazione condotta nel 2002 dalle forze speciali russe con i gas tossici nel teatro di Mosca rientrava nelle azioni consentite dalla Cwc?”. Tra un anno, forse, le risposte.

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