Molta ricerca, poca impresa

    Il trasferimento tecnologico in Italia ha i numeri di un paese che investe (non solo denaro) poco o nulla nel far dialogare mondo accademico e imprese. Eppur qualcosa si muove, seppur molto lentamente. A evidenziarlo il quarto censimento del NetVal (Network per la Valorizzazione della Ricerca Universitaria) che coinvolge il 61 per cento delle università con il 71 per cento degli studenti. Che mostra come gli uffici di trasferimento tecnologico si siano cresciuti dal 2000 a oggi. Sette anni fa erano infatti 11 mentre al momento sono una quarantina. Un trend che è stato accelerato, come riporta “Il sistema dell’Innovazione in Italia: Ict e società dell’Informazione”, un rapporto che la società di analisi Idc ha realizzato in occasione del Forum dell’Innovazione Digitale, dall’iniziativa del ministero della Ricerca che “nel 2006 ha finanziato 11 Industrial Liaison Office (Ilo) con un investimento di 11,16 milioni di euro (la metà a carico del Miur) con il coinvolgimento di 42 università”. In quattro casi si tratta di progetti nuovi, mentre gli altri sono di consolidamento e messa in rete di uffici già esistenti.

    Dal rapporto Idc esce fuori che le università italiane, dal punto di vista del trasferimento tecnologico, si dividono in tre categorie. La prima: “un piccolo gruppo di leader con strutture consolidate da anni molto attive nel campo della protezione e sfruttamento della proprietà intellettuale”. La seconda corrisponde alla maggioranza degli atenei che “ha avviato l’attività da due-tre anni, si sta attrezzando in termini di risorse economiche e di personale ma sconta la mancanza di esperienza”. Infine: “una minoranza di atenei in ritardo, che fatica a impegnarsi nel trasferimento tecnologico sia per mancanza di competenze, sia per incertezze gli investimenti e le risorse necessarie”. I casi di maggior successo sono cinque, tutti al nord: la Scuola Sant’Anna di Pisa, l’Università di Bologna e Milano e i politecnici di Milano e Torino.

    Ad analizzare lo stato del trasferimento tecnologico italiano ci ha pensato anche il network europeo ProTon (Public Research Organization Technology Offices Network). Che evidenzia come il modello americano, basato sulla commercializzazione dei brevetti mediante il “licensing out”, il rilascio delle licenze all’esterno, non è applicabile in Europa. Il perché è spiegato nel documento Idc: “Negli Stati Uniti le attività di trasferimento tecnologico sono iniziate prima, con un atteggiamento molto più libero sia per ottenere un brevetto (viene registrata la semplice idea, non ci sono costi per il mantenimento della stessa) sia per l’avvio, con maggiore ricorso a venture capital, di aziende spin-off. In Europa, per entrambi gli aspetti, si registra un atteggiamento prudente che comporta alla fine minori risultati da attività di trasferimento tecnologico”.

    Secondo ProTon il modello di business che si adatta meglio al trasferimento tecnologico europeo “è quello del Knowledge Transfer Office (Kto) con un raggio di azione più esteso, focalizzato soprattutto sulla creazione di imprese spin-off e di gestione della proprietà intellettuale nei contratti di ricerca, valorizzando i rapporti di lungo periodo con le imprese sul territorio”. In questo senso gli uffici di trasferimento tecnologico (Utt) italiano si stanno muovendo nella giusta direzione valorizzando in chiave economica la ricerca universitaria e realizzando politiche di brevettazione dei risultati della ricerca

    Ciò che manca nel nostro paese, come risulta dal confronto con la media europea, è una corretta gestione dei contratti di ricerca. Si legge nel rapporto Idc: “In Italia, questa attività viene svolta in modo limitato dagli Utt, in quanto questi uffici sono, nella maggior parte dei casi, un’estensione delle aree amministrative della gestione della ricerca d’ateneo, con focus su aspetti come spin-off e brevetti e competenze specifiche in quest’area. La gestione dei contratti di ricerca, che rappresenta la parte più importante delle attività di trasferimento tecnologico delle università italiane in termini di ritorno economico, è tipicamente competenza dei singoli dipartimenti universitari”. Un modello che sconta inefficienze non da poco: quando, per esempio, un Utt contatta una possibile impresa cliente spesso non è a conoscenza dei rapporti delle aziende con il personale dell’università.

    Idc si è poi soffermata sulla composizione degli Utt italiani che rispetto alla media europea – che vede sei persone – ha un valore più basso per quanto riguarda le dimensioni, anche se il valore è cresciuto negli ultimi quattro anni, passando da 1,8 addetti full time nel 2002 a quattro nel 2005.

    Nel 2004, ultimo censimento disponibile, gli Utt servivano un bacino potenziale di circa 16.160 docenti e ricercatori, di cui solo il 13 per cento (poco più di 2.000) hanno usato i loro servizi. Il numero dei brevetti è però aumentato, pur restando bassi i ricavi: i brevetti licenziati e/o ceduti dal 2002 al 2005 sono stati appena 157 su un totale di un migliaio di registrazioni. La spiegazione di Idc: “Il fatto che un numero limitato di brevetti trovi successivamente immediata applicazione dipende principalmente dal fatto che le invenzioni non sono tipicamente tarate sui bisogni effettivi del mercato”.

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