Quando finisce la depressione?

Quando inizia e quando finisce, il “male oscuro”? Sui criteri per individuare i primi segni della depressione, e soprattutto su quelli per dichiarare un paziente guarito e quindi interrompere il trattamento, la psichiatria non ha ancora le idee abbastanza chiare. E finisce per non trarre il massimo dalle terapie che avrebbe a disposizione. A sostenerlo sono due studi pubblicati nelle ultime settimane, firmati con diversi colleghi da Giovanni Fava, professore al dipartimento di psicologia dell’Università di Bologna. Con una review pubblicata su Psychological Medicine in particolare, Fava e i suoi colleghi Chiara Ruini e Carlotta Belaise hanno passato in rassegna tutti gli studi pubblicati sull’esito delle terapie contro la depressione, concludendo che troppo spesso chi sembra guarito non lo è: continua invece ad avere diversi sintomi che, sottovalutati, portano spesso a una ricaduta della malattia.

“Negli ultimi dieci anni è diventato sempre più chiaro che abbiamo a disposizione degli strumenti, sia farmaci che psicoterapie, abbastanza efficaci contro la depressione maggiore, nel senso che permettono al paziente di stare meglio in tempi ragionevolmente brevi” spiega Fava. “Però ci stiamo anche accorgendo, dati alla mano, che la percentuale dei pazienti che davvero guariscono, nel senso che superano tutti i sintomi e non ricadono più nella malattia, è davvero bassa”.

Meno di un terzo dei pazienti, mettendo assieme i dati degli studi disponibili in letteratura, si libera davvero dalla malattia. Per tutti gli altri, anche se secondo i criteri diagnostici standard si arriva alla guarigione o remissione (la sintomatologia rimane cioè sotto una certa soglia per un periodo sufficientemente lungo) rimangono in realtà sintomi residuali (soprattutto ansia e irritabilità); che guarda caso sono molto simili ai sintomi iniziali tipici delle primissime fasi della malattia, e che molto spesso preludono a ricadute se non a un vero e proprio ritorno della malattia.

È evidente quindi che gli attuali protocolli terapeutici non sono abbastanza efficaci. “Di sicuro la monoterapia, approcci terapeutici basati su un singolo farmaco (o anche su un singolo trattamento psicoterapico), dà in genere risultati deludenti. Gli studi hanno dimostrato che il trattamento più efficace si ha combinando i farmaci e la psicoterapia”. In più, spiega Fava, ci sono ormai indicazioni chiare che i migliori risultati si hanno non sovrapponendo i due trattamenti, ma somministrandoli in sequenza: prima il farmaco, che può avere effetto molto rapidamente e agire sui sintomi, e in seguito la psicoterapia, da cui a quel punto il paziente è in grado di trarre il massimo beneficio”. Questo appare al momento il modo migliore per affrontare la fase acuta della malattia e poi controllare e ridurre progressivamente i sintomi residuali, allontanando il rischio di ricaduta.

Discorso complementare quello dei sintomi iniziali, dei “prodromi” della malattia, che opportunamente riconosciuti possono consentire di affrontarla con terapie che ne evitino la progressione verso forme più gravi. A questo tema, su cui la ricerca psichiatrica si è soffermata pochissimo, è dedicato un altro articolo firmato da Fava con Eliana Tossani e apparso su Early Intervention in Psychiatry. Anche qui passando in rassegna i (non molti) studi disponibili, Fava e  Tossani hanno mostrato che nella maggioranza dei pazienti con depressione unipolare la mlattia non inizia improvvisamente ma compaiono, nei mesi precedenti, sintomi caratteristici, poi riferiti dal paziente stesso o dai parenti; a cominciare da ansia e irritabilità, ma anche insonnia, senso di affaticamento, scarsa capacità di concentrazione e minore rendimento lavorativo.

“Quello che manca con la depressione è una distinzione tra stadi e livelli di gravità della malattia, come esiste in altri campi della medicina, per esempio in cardiologia” conclude Fava. ”I criteri standard adottati in psichiatria non solo non prendono in considerazione prodromi e sintomi residuali; ma non distinguono nemmeno tra chi ha due o venti episodi di depressione nel giro di dieci anni. È fondamentale definire un vero e proprio staging della malattia, che permetta di individuare le fasi iniziali più leggere e di non dichiarare guarito il paziente troppo presto”.

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