Così ho riscritto il Principio di Archimede

È il Principio di Archimede: un corpo immerso in un fluido riceve una spinta verso l’alto pari al peso del volume del fluido spostato. Una definizione che tutti i bambini imparano fin dalle scuole medie, consolidata oramai da ventitré secoli. Eppure, stavolta sono stati i ricercatori del Politecnico di Milano a pronunciare il celebre “Eureka!”: i loro studi hanno evidenziato come in alcuni casi il principio, nella sua formulazione classica, non sia in accordo con i risultati sperimentali. Gli scienziati hanno quindi enunciato una versione più generale di questa legge fisica: la spiega Roberto Piazza, direttore del Laboratorio Soft Matter del Politecnico, autore del libro “La materia dei sogni” (Springer, 2010) e, insieme ad Alberto Parola dell’Università dell’Insubria, di questo lavoro pubblicato su Soft Matter.

Professore, non è da tutti mettere in discussione una delle leggi fisiche più antiche del mondo. Da cosa nasce la vostra intuizione?

“Ci stavamo occupando di un problema complesso, quello della sedimentazione. Quando si studia come si deposita progressivamente sul fondo di un recipiente una miscela di particelle di dimensioni o densità diverse disperse in un liquido, ossia il processo di sedimentazione dovuto al peso delle particelle stesse, si osservano talora fenomeni molto strani. La deposizione delle particelle non avviene infatti in modo uniforme, ossia come un ‘fronte’ orizzontale che scende progressivamente, bensì generando complessi pattern che sembrano essere un rompicapo inspiegabile. La sedimentazione è di estrema importanza in natura: pensiamo per esempio che le Dolomiti sono formate da rocce sedimentarie, ossia dovute alla lenta deposizione e compattazione sul fondo dei mari di particelle minerali. Quando poi alla forza peso si dà un ‘aiutino’, centrifugando la sospensione di particelle proprio come fa la lavatrice (a dire il vero, un po’ più veloce), si ottiene una tecnica di interesse primario per settori che vanno dalla separazione dei minerali, all’estrazione del petrolio, all’arricchimento dell’uranio (senza grandi banchi di centrifughe non ci sarebbero centrali nucleari).

Ora, in un processo di sedimentazione, alla forza peso si oppone la spinta di Archimede verso l’alto. Per cercare di analizzare con simulazioni al computer quanto osservato, era necessario specificare quanto valesse questa spinta. La cosa sembrerebbe banale: in fondo, fin dalle scuole medie ci hanno insegnato che la spinta di Archimede su una particella di volume V è pari al peso del liquido spostato, ossia al prodotto di V per la densità del liquido per l’accelerazione di gravità. Ma, a pensarci bene, non è affatto così. Supponiamo ad esempio di avere una particella di tipo 1 che sedimenta in una dispersione in acqua di particelle di tipo 2, ossia in una specie di ‘mare’ pieno di ‘pesciolini’: quale densità usiamo per calcolare la spinta di Archimede, quella dell’acqua o quella della dispersione? Ossia, dobbiamo tenere conto o meno del fatto che i ‘pesciolini’, specialmente se sono molti, modificano la densità media del ‘mare’? Sembra incredibile, ma questa semplice domanda non ha una risposta così immediata: andando a rileggere la letteratura pubblicata negli ultimi trent’anni sui processi di sedimentazione nelle miscele di particelle, ci si accorge in realtà che entrambe queste scelte portano talvolta a conclusioni che fanno a pugni con i risultati sperimentali. Valeva quindi la pena di ripensare attentamente quella che, con la sua venerabile età di oltre ventitre secoli, è in effetti verosimilmente la più antica delle leggi fisiche”.

Quali sono i limiti della formulazione classica del principio, e in che modo siete arrivati a generalizzarlo?

“Il vulnus sta proprio nell’ambiguità della frase ‘peso del liquido spostato’. Siamo proprio sicuri di spostare solo un volume di liquido pari a quello della particella? Torniamo al nostro esempio precedente. Guardando la figura 1, vi accorgete subito che, oltre all’acqua, la pallina 1 ‘sposta’ anche un bel po’ di palline di tipo 2, per l’esattezza tutte quelle i cui centri giacciano entro la sfera che ha come raggio la somma dei raggi delle due palline. Quindi, la massa spostata è maggiore di quanto previsto da Archimede. Quello che abbiamo intuito, tuttavia, è che possiamo ancora calcolare la spinta di Archimede ‘effettiva’ come la differenza tra il peso di un volume di liquido prima e dopo aver inserito la particella di tipo 1. Questo volume, però, deve comprendere tutta la regione della sospensione di palline di tipo 2 che viene “perturbata” dalla presenza della particella 1. Questo è solo un esempio semplice. Grazie alla collaborazione con Alberto Parola, un fisico teorico dell’Università dell’Insubria, siamo però riusciti a utilizzare le teorie che descrivono la struttura dei liquidi per ottenere un risultato molto più generale, che vale per una particella che venga dispersa in un fluido di qualunque natura (ossia, non solo in una dispersione di altre particelle, ma anche in un liquido semplice che interagisca in qualche modo con la particella, ndr.), perché chiarisce in modo rigoroso che cosa siano queste ‘perturbazioni’. Tutto ciò si riassume in un nuovo principio che ci piace chiamare GAP (Generalized Archimedes’ Principle). Questo vuol dire che Archimede aveva torto? No, naturalmente: per un pallone da calcio che, immerso, viene spinto a galla, la spinta è praticamente identica a quella enunciata dal grande siracusano. Ma, nel mondo microscopico, le cose vanno molto diversamente e possono portare a risultati sorprendenti”.

Avete condotto degli esperimenti per suffragare la vostra idea. Che cosa avete osservato?

“Ovviamente, come fisici sperimentali, ci fidiamo solo fino a un certo punto delle teorie, per quanto rigorose e ottenute in modo così sorprendentemente semplice. Abbiamo allora lasciato sedimentare in una celletta delle dispersioni in acqua di particelle di piccola dimensione (particelle 2) fino a che queste non hanno raggiunto quello che si dice ‘equilibrio di sedimentazione’: in queste condizioni, la concentrazione delle particelle (e quindi la densità locale media) decresce dal fondo della celletta verso l’alto. Alla dispersione avevamo però aggiunto altre particelle (particelle 1), più grandi ma meno dense: analogamente a quanto avviene con la centrifugazione, utilizzando il principio di Archimede classico, si può prevedere a che quota queste particelle galleggeranno all’equilibrio. Tuttavia, i risultati sperimentali mostrano che questa previsione è sensibilmente sbagliata: la quota di galleggiamento risulta tanto più alta del previsto quanto meno differiscono le dimensioni dei due tipi di particelle. Non solo: sia la quota effettiva sia il modo in cui le particelle 1 si distribuiscono sono in perfetto accorto con il GAP.

Ma c’è di più, perché gli effetti dovuti alle perturbazioni di cui parlavamo portano a prevedere fenomeni del tutto non intuitivi, che abbiamo messo in luce con un esperimento davvero sorprendente. Quando ha elaborato la sua teoria rigorosa, Alberto Parola si è imbattuto in una conseguenza a dir poco strana, che ha sintetizzato in una e-mail dal titolo “Come è facile nuotare in un mare pieno di balene!”. Ciò di cui Parola si era accorto è che, se consideriamo il caso opposto di particelle piccole che sedimentano in un mare di particelle meno dense ma molto più grandi, la spinta prevista del GAP può essere così forte da spingere a galla le particelle piccole, anche se queste sono molto dense. L’evidenza sperimentale è quella che si vede in figura 2, dove particelle d’oro quasi venti volte più dense dell’acqua, con un diametro di pochi nanometri, galleggiano su un mare costituito da una sospensione di particelle cinque volte più grandi, che ha una densità poco superiore a quella dell’acqua. Insomma è come se, immersi nella vostra vasca da bagno, vedeste venire a galla un tappo di ferro: anche Archimede sarebbe rimasto sorpreso.

Il GAP, oltre a permettere di concepire nuovi metodi di investigazione delle forze tra una particella e il solvente in cui è dispersa, basati su semplici misure di densità, può dunque far intravedere lo sviluppo di metodi di separazione del tutto inaspettati. Forse può anche aiutarci a capire l’origine degli strani fenomeni di instabilità che abbiamo osservato”.

Il vostro lavoro è stato pubblicato sulla rivista Soft Matter dopo una curiosa serie di rifiuti da parte di altri editori. Ci racconta com’è andata?

“Questa è la parte più deprimente, ma anche più curiosa della storia. Piacevolmente sorpresi di aver compiuto un osservazione così imprevista, solidamente confermata dagli esperimenti e di interesse per una comunità scientifica più ampia di quella dei fisici, nonché spronati da molti colleghi di grande prestigio che erano venuti a conoscenza dei nostri risultati, abbiamo ritenuto opportuno inviarla a una rivista ad altissimo impatto. Ma, in un mondo scientifico sempre più dominato dalla competizione sfrenata, la comunicazione scientifica ha ormai decisamente preso una brutta piega. Non basta ottenere un risultato di interesse generale, magari ponendo in questione ipotesi che tutti danno per scontate: se quanto fatto non può essere immediatamente ‘venduto’ alle rubriche scientifiche dei quotidiani o delle riviste a larga diffusione, per questi mostri sacri dell’editoria scientifica non si è sufficientemente attrattivi in termini di audience potenziale. Così almeno la pensano gli editori di Science, Nature, e Nature Materials, che ci hanno respinto il lavoro (nel caso di Science, facendoci perdere addirittura più di un mese) senza seguire la pratica da secoli consolidata nel mondo scientifico: quella di inviare il lavoro a referee, ossia a colleghi qualificati che ne giudichino in modo anonimo, con competenza e spesso severità, il valore scientifico, la chiarezza dell’esposizione e la correttezza delle conclusioni.   

Dopo lunghe ulteriori peregrinazioni, il lavoro è stato pubblicato da Soft Matter, una rivista sicuramente di ottimo livello, ma destinata a un pubblico molto più specialistico. La cosa curiosa tuttavia è che, prima che il lavoro venisse accettato, abbiamo ricevuto una e-mail dall’editore di Nature Materials – proprio colui che aveva rigettato due settimane prima il nostro articolo, ritenendolo ‘poco originale’ – che, un po’ con la coda tra le gambe, ci faceva sapere che ‘forse era stato un po’ troppo frettoloso nel giudicare il nostro lavoro’, ma che comunque, in ogni caso, sarebbe stato lieto ‘di leggere qualcosa sul lavoro stesso sul numero successivo della rivista’. Di fatto, il giorno dopo è apparso proprio su Nature Materials un ampio commento fortemente elogiativo dal titolo “Aggiornando Eureka” a firma di Philip Ball, uno tra i migliori scrittori di scienza divulgativa, che aveva casualmente trovato sul web una versione preliminare del nostro articolo. Forse ha ragione Daan Frenkel, un fisico di Cambridge tra i massimi esperti mondiali di simulazione al computer, che in segno di solidarietà per la nostra vicenda editoriale mi ha scritto: ‘Non sono le buone riviste che rendono buono un lavoro scientifico, sono i buoni lavori che rendono buone le riviste che li pubblicano’. Non potrei immaginare un commento migliore”.

Riferimento: DOI: 10.1039/C2SM26120K

Credit immagine: Dipinto di Domnico Fetti, via Wikimdia Commons

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