Sulla via del disarmo

Nel gennaio di quest’anno abbiamo tutti assistito all’intervento francese in Mali, mentre poco prima (dicembre 2012) un’altra crisi sembrava sul punto di scoppiare nella Repubblica Centro Africana. Al momento in cui scriviamo queste righe l’Africa sembra essere di nuovo sul punto di uscire dalle cronache militari che riempiono le prime pagine dei giornali, anche se l’assalto all’impianto di In Amenas in Algeria e la conseguente crisi degli ostaggi sviluppatasi parallelamente agli eventi in Mali – per non parlare dell’assalto all’ambasciata americana a Bengasi di pochi mesi prima – stanno a ricordarci che vaste zone di quel continente soffrono di un’instabilità endemica che sembra essersi solo accresciuta negli ultimi due anni. Diversi commentatori hanno messo in evidenza in quei giorni (si veda per esempio Robert F. Worth, The Arab Spring’s dangerous side, su International Herald Tribune del 21 gennaio 2013) che questa situazione ha sicuramente molte radici profonde, ma che certamente le recenti crisi politico-militari, e in particolare quella libica, sono state anche dei potenti agenti di contagio soprattutto da un punto di vista logistico: accresciuta porosità dei confini, espansione delle aree sottratte ai controlli governativi, disorganizzazione della polizia e dei servizi di sicurezza e soprattutto sfrenata proliferazione e diffusione di armi di ogni genere, in particolare quelle leggere.

Sarà bene ricordare infatti che molta attenzione viene internazionalmente prestata – e giustamente – al controllo della proliferazione di armi nucleari, chimiche, batteriologiche, o comunque alla produzione e alla detenzione di sistemi d’arma come missili, bombardieri, portaerei o sottomarini, mentre invece molto minore interesse suscitano i problemi relativi alla produzione, al commercio e alla diffusione degli strumenti che poi nella realtà sono i principali portatori di morte sul nostro pianeta: le SALW (Small Arms and Light Weapons). Con questo acronimo si usano indicare armi che vanno da pistole di piccolo calibro, fucili, e armi automatiche, fino a lanciatori di granate, mortai, cannoni anti-aerei e mine, ma la definizione non è sempre precisa né universalmente accettata. Alla luce di questa trascuratezza della maggior parte dell’opinione pubblica è confortante vedere invece che un opportuno spazio è stato dedicato ai tentativi di limitare il commercio e la diffusione delle SALW in un recente e utile volume curato da Maurizio Simoncelli e scritto da un gruppo di collaboratori radunati attorno all’Archivio Disarmo di Roma: La Pace possibile: Successi e fallimenti degli accordi internazionali sul disarmo e sul controllo degli armamenti (Ediesse, Roma 2012). Dei dodici saggi in esso contenuti, infatti, quattro sono dedicati al controllo della proliferazione di armi convenzionali.

In particolare, per tornare alle nostre considerazioni iniziali, il capitolo curato da Vincenzo Gallo tratta proprio di una Convenzione contro la proliferazione di SALW stipulata nel 2006 (ed entrata in vigore nel 2009) dai paesi africani dell’ECOWAS (Economic Community of West African States), un gruppo costituito nel 1975 con l’obiettivo di incentivare l’integrazione economica dei 15 stati (Mali compreso) che si trovano nella parte meridionale dell’Africa occidentale. La convenzione, che correttamente individua la proliferazione di armi leggere come un elemento centrale di quella instabilità che impedisce qualunque sviluppo economico della regione, costituisce un punto di svolta in quanto dimostra un precisa volontà di spezzare una perversa catena di cause ed effetti. Purtroppo, però, gli eventi degli ultimi mesi ai quali facevamo riferimento prima dimostrano che si tratta solo di un primo passo nella direzione giusta e che molto deve ancora essere fatto.

D’altra parte in un mondo ormai caratterizzato da un’economia – legale e illegale – altamente interconnessa è evidente che le convenzioni regionali (come quella dell’ECOWAS) non possono che rivelarsi insufficienti. Gli sforzi dell’ONU in questa direzione si sono però per il momento rivelati inefficaci, e anche i tentativi di imporre delle regole al commercio internazionale di armi hanno registrato solo dei successi parziali. L’Unione Europea nel 2008 – come sottolinea il capitolo di Melissa Tala – non è andata oltre una Posizione Comune che vincola le politiche nazionali degli Stati membri a essere conformi alle proprie prescrizioni nel settore dell’esportazione di armi, ma essa riveste un carattere di obbligatorietà discutibile a causa di un difetto di giurisdizione della Corte di Giustizia europea per quel che riguarda la politica di sicurezza. Ancor più arretrato, come ci ricorda Emilio Emmolo, è poi lo stato della trattativa per la definizione di un ATT (Arms Trade Treaty) proposto dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2006 e discusso senza successo nel luglio 2012 a New York. In questo caso ha pesato molto l’atteggiamento negativo dei grandi paesi produttori di armi: Russia, Cina e USA. In particolare si è rivelata determinante una dichiarazione di 51 senatori americani (di entrambi gli schieramenti) contrari al trattato sulla base del Secondo Emendamento della Costituzione: quello, per intenderci, che permette ai cittadini USA di detenere armi, come ci ricorda quotidianamente la cronaca nera di quel paese.

L’unico settore delle armi convenzionali nel quale sono stati registrati dei successi, come ci racconta Luigi Barbato, sembra essere quello delle mine antipersona e delle cluster bombs: le convenzioni APM (Anti Personnel Mines di Ottawa, in vigore dal 1999) e CCM (Convention on Cluster Munitions di Dublino, in vigore dal 2010) sono state peraltro un chiaro risultato della mobilitazione della società civile come dimostra il Premio Nobel per la Pace attribuito nel 1997 alla ICBL (International Campaign to Ban Landmines) e alla sua coordinatrice Jody Williams. Ma complessivamente, ripercorrendo i capitoli del libro, si ha l’impressione che i principali sforzi internazionali per il disarmo e il controllo degli armamenti siano piuttosto circoscritti all’importante ambito delle armi nucleari che però fortunatamente – a differenza dalle SALW – non sono mai più state usate dal 1945. 

I trattati più numerosi e più rilevanti in questo quadro costituiscono la ben nota sequenza di accordi relativi prima alla limitazione, e poi alla riduzione delle armi nucleari strategiche. A partire dal SALT I (Strategic Arms Limitation Talks) del 1972, e passando attraverso l’INF (Intermiediate-Range Nuclear Forces) del 1987, fino ai trattati START (Strategic Arms Reduction Talks) del dopo Guerra Fredda, Angelo Motola traccia una rassegna di questi trattati che hanno progressivamente condotto a una riduzione degli arsenali da un totale massimo di circa 70.000 testate nel 1986-7, fino alle attuali 19.000 e con limiti ancora inferiori imposti dal NewSTART (in vigore dal 2011) entro il 2018. Anche questi risultati si dimostrano però sempre molto sensibili al clima politico internazionale come testimoniano le difficoltà di questi ultimi mesi nei rapporti USA-Russia dopo il ritorno di Putin alla presidenza nel maggio 2012. L’altro pilastro della sicurezza nucleare è rappresentato poi dall’ormai venerabile NPT (Non-Proliferation Treaty) del 1972 il cui stato di salute è esaminato da Martina Paone con un esito giustamente problematico: il regime di non proliferazione, infatti, è messo a rischio non solo dalla presenza di alcuni Stati che si sono dotati di armi nucleari al di fuori dell’NPT (India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) o dai sospetti che si attirano le attività nucleari di altri (Iran), ma anche dalla tenacia con la quale i cinque Stati nucleari dell’NPT (USA, Russia, UK, Francia e Cina) trascurano i loro impegni per un efficace disarmo nucleare.

Singolare, ma eloquente, è poi lo stato “sospeso” del CTBT (Comprehensive Nuclear Test Ban Treaty) aperto alla firma – come ci ricorda Giulia Ferrara – nel 1996, ma non ancora in vigore a causa della mancata ratifica di 8 dei 44 Stati riconosciuti con capacità nucleari: Cina, Corea del Nord, Egitto, India, Iran, Israele, Pakistan e USA. Una mancanza sospetta e preoccupante se si tiene conto dell’importanza che questo trattato avrebbe all’interno di un complessivo regime di non proliferazione. Un dato decisamente positivo, invece, si riscontra nel considerevole numero di accordi regionali per la costituzione di zone denuclearizzate (NWFZ, Nuclear Weapons Free Zone). Nei suoi contributi Adriano Cicioni esamina le caratteristiche di quattro di questi trattati: Tlatelolco (America Latina e Caraibi, in vigore da1968), Rarotonga (Pacifico del Sud, 1986), Bangkok (paesi dell’ASEAN, 1997) e Semipalatinsk (Asia Centrale, 2006). Assieme ad altri trattati analoghi che coprono ulteriori zone del pianeta (Antartide, 1961; spazio, 1967; fondali marini, 1972; Mongolia, 2000 e Africa, 2009) essi costituiscono un importante sistema di accordi che limitano la diffusione e la circolazione delle armi nucleari. Si calcola che a tutt’oggi questi trattati interessino il 56% della superficie delle terre emerse e il 39% della popolazione mondiale, a fronte rispettivamente del 28% e del 46% degli Stati nucleari. L’importanza di questo tipo di accordi è sottolineata peraltro dall’interesse che ha recentemente sollevato la proposta dell’istituzione di una NWFZ in Medio Oriente: una regione che sicuramente trarrebbe vantaggio dal raggiungimento di un simile risultato.

Il quadro dei trattati internazionali tracciato dal libro di Archivio Disarmo è dunque sicuramente variegato e aperto a molti imprevedibili sviluppi, ma il curatore Maurizio Simoncelli nel suo saggio introduttivo non manca di mettere giustamente in evidenza che una novità importante emersa in questi ultimi anni è «l’intervento della società civile in settori che tradizionalmente rimanevano riservati alle diplomazie e ad ambienti ristretti». E qui, nonostante le difficoltà politiche e diplomatiche che realisticamente non potremo comunque trascurare, il successo di campagne internazionali come quelle contro le mine e contro le cluster bombs non può non concederci quella piccola dose di speranza e di ottimismo di cui si sente fortemente il bisogno.

Questo articolo è stato pubblicato con lo stesso titolo sul numero di aprile 2013 di Sapere. Ecco come acquistare una copia della rivista o abbonarsi on line.

Credits immagine: Curtis Gregory Perry/Flickr

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