Stamina, il diritto alla cura e le aspettative dei malati

Negli ultimi mesi il caso Stamina ha suscitato un ampio dibattito medico, sociale e politico che ha richiamato l’attenzione non solo dei media, ma di prestigiose riviste scientifiche internazionali quali Nature (1-2) ed EMBO (3-4). Il caso, ormai ben noto, è quello di una terapia sperimentale, basata sulla somministrazione di cellule staminali adulte, prodotte dalla Fondazione Stamina, come trattamento per diverse malattie degenerative. Nonostante l’assenza di prove scientifiche dell’efficacia di tali trattamenti (5), il parere sfavorevole dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) e dell’Istituto Superiore di Sanità, nonché i forti dubbi circa la sicurezza del prodotto somministrato, il Ministero della Salute ha inizialmente autorizzato l’uso “compassionevole” della terapia in un piccolo gruppo di piccoli pazienti, circa 30, in seguito alle forti pressioni ricevute dalle famiglie dei malati, dall’opinione pubblica e da una pressante campagna mediatica. In seguito a una valanga di accese discussioni, che hanno visto scendere in campo autorevoli clinici e scienziati e che ha focalizzato sulla controversia l’attenzione di riviste scientifiche internazionali, del calibro di Nature, a maggio 2013 la Camera ed il Senato, hanno di fatto autorizzato la sperimentazione clinica delle cellule staminali preparate secondo il metodo Stamina, sperimentazione che verrà condotta sotto lo stretto controllo dell’Aifa e dell’Istituto Superiore di Sanità.

A parte le considerazioni, umane e scientifiche, che casi del genere suscitano inevitabilmente, è mia ferma opinione che i problemi da considerare siano di portata ben ampia e che, nonostante gli enormi progressi ottenuti in campo clinico e scientifico, persista ancora oggi una enorme difficoltà di interazione tra Istituzioni, ricerca, applicabilità delle cure e società, difficoltà che peraltro continuano a ricadere sui pazienti. La qualità e la sicurezza delle terapie somministrate devono essere un prerequisito essenziale e un diritto garantito a tutti i pazienti. In tale ambito, il ruolo di controllo esercitato da istituzioni quali Aifa e Iss è l’unico in grado di assicurare il rigore scientifico dei trattamenti, la sicurezza e la qualità dei farmaci utilizzati, l’efficacia dei protocolli terapeutici, la tutela della dignità e della qualità di vita dei pazienti, indipendentemente dal tipo di patologia che li ha colpiti.

Nonostante tali presupposti, l’autorizzazione a impiegare farmaci non testati e di efficacia non sperimentalmente dimostrata, non è una evenienza rara. Il caso storicamente più emblematico è stato l’impiego della zidovudina (AZT), autorizzata nel 1987 dalla FDA per il trattamento negli Usa di pazienti affetti da Hiv, anche in quel caso in seguito alle forti pressioni dei familiari e dell’opinione pubblica. Il farmaco, somministrato ad alte dosi, induceva un fugace periodo di controllo della replicazione del virus e, di conseguenza, un transitorio miglioramento del quadro clinico, ma i pazienti manifestavano forti effetti collaterali e in pochi mesi sviluppavano resistenza al trattamento. Oggi sappiamo che l’AZT aumenta il rischio di patologie cardiovascolari e che solo la sua forma trifosforilata è capace di inibire la replicazione virale. Il primo AZT, somministrato in forma non modificata, non solo non aveva nessuna reale possibilità di controllare né tantomeno di curare la malattia, ma peggiorava la qualità di vita dei pazienti e aumentava il rischio di infarto (6).

Potremmo citare molti altri esempi di “insuccessi”. Alcuni composti, dimostratisi molto promettenti nelle sperimentazioni in laboratorio o su modelli animali, non sono mai entrati in uso nella pratica clinica perché inefficaci nella specie umana; molti farmaci antitumorali, che hanno significativamente migliorato il trattamento del cancro, non possono essere utilizzati in alcuni pazienti che, per variabilità genetica, non risponderebbero al trattamento. Ma questi casi, pur diversi tra loro, come vengono percepiti dalla società o, meglio, dai pazienti? Vengono percepiti come “assenza di una cura”, ma in nessun caso l’assenza di cura o definizioni inaccettabili come “malattia incurabile” possono giustificare l’uso di terapie non sicure o inefficaci che non verrebbero mai proposte a pazienti con migliori o più lunghe aspettative di vita.

I problemi da affrontare sono diversi. Innanzitutto, la ricerca, bistrattata e poco finanziata, ma tuttavia di ottimo livello nel nostro paese, dovrebbe sempre perseguire l’obiettivo finale di cura, piuttosto che il raggiungimento di risultati, anche di grande prestigio, ma non sempre rapidamente applicabili alla pratica clinica. Nella nostra esperienza, sempre più spesso i pazienti chiedono: “Che cosa significa questo risultato?”, “Posso usare questa sostanza?”, “Mi può guarire?”. Possiamo sempre rispondere a queste domande oggi? Non tutti i pazienti hanno tempo. La ricerca scientifica e l’individuazione di nuovi trattamenti non possono rischiare di essere un meraviglioso “gioco scientifico”, ma devono fare i conti con la gente, devono dare risposte veloci e chiare, garantire ugualmente a tutti i pazienti dignità e qualità delle cure. Le tappe di sperimentazione e le procedure per l’approvazione di nuovi farmaci devono essere semplici, veloci, adeguate alle esigenze e alle speranze di cura dei pazienti, in particolare per coloro che soffrono di malattie pediatriche, rare o in rapida evoluzione. Un sostanziale miglioramento di questi processi può essere ottenuto soltanto con una più ampia collaborazione internazionale in grado di coinvolgere non solo i singoli ricercatori, ma anche la pianificazione degli studi clinici, la selezione e il reclutamento veloce di più ampi numeri di pazienti, la valutazione e la divulgazione dei risultati. Tali collaborazioni sono quanto mai auspicabili per le malattie rare in cui il ridotto numero di soggetti colpiti e, quindi, l’oggettiva difficoltà di reclutare i pazienti rallenta l’identificazione dei meccanismi causa di malattia e scoraggia gli investimenti delle aziende farmaceutiche nei costosi processi produttivi di nuovi farmaci.

Infine, un pesante limite delle attuali procedure è rappresentato, soprattutto in Italia, dal drammatico distacco e dalla totale mancanza di comunicazione tra ricerca scientifica ed enti di Controllo, da un lato, ed i pazienti e la società, dall’altro. I risultati sperimentali, le fasi di approvazione di nuovi farmaci, le terapie utilizzate, dovrebbero essere resi noti in tempo reale in una forma semplice, chiara e aggiornata. Mai come oggi siamo in grado di reperire migliaia di informazioni, su qualsiasi argomento, ma siamo in grado di conoscere in modo altrettanto semplice, rapido e aggiornato quali sono le possibilità di cura, i rischi e i benefici di una terapia?

La malattia, il dolore, la solitudine, la mancanza di informazioni chiare e di una prospettiva di cura sono gli elementi che portano i pazienti a sollecitare o ad utilizzare terapie non scientificamente provate o, in alcuni casi, a rifiutare i trattamenti.

Riferimenti

1. Abbott A (2013) Nature 495: 418-419;

2. Nature Editorial Smoke and mirrors (2013) Nature 496: 269-270;

3. Bianco P et al (2013) EMBO Journal doi:10.1038/emboj.2013.114;

4. Bifulco M et al (2013) EMBO Rep. doi: 10.1038/embor.2013.71;

5. Carrozzi M, Amaddeo A, Biondi A, Zanus C, Monti F, Alessandro V (2012) Neuromuscolar Disord 22: 1032-1034

6. D:A:D Study Group (2008) Lancet 371:1417-26.

Credits immagine: Sky Noir/Flickr

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here