Perché la scuola è incapace di cambiare

Dal tempo dei tempi le tecniche dell’insegnamento scolastico si sono variamente modificate, ma hanno sempre cercato di perseguire uno stesso obiettivo: trasferire conoscenze nella mente dei giovani che dovevano apprenderle e memorizzarle. Nel tempo, però, la mole di nozioni è enormemente aumentata, la struttura e i bisogni della società si sono trasformati, e in ogni parte del mondo globalizzato i diversi paesi cercano faticosamente di adeguare i loro sistemi di istruzione alle nuove esigenze.

In Italia una nuova filosofia dell’insegnamento sostiene le Indicazioni Nazionali, diventate legge dello Stato con pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (DECRETO 16 novembre 2012, n.254: Regolamento recante indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, a norma dell’articolo 1, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 89.(13G00034). Come punto qualificante, la legge chiede alla scuola di spostare l’attenzione quotidiana dai contenuti alle persone (alunni) che dovranno diventare i futuri cittadini del paese.

Le innovazioni richieste sono estremamente importanti: da una scuola che istruisce a una scuola che educa, impegnata a sviluppare relazioni didattiche radicalmente nuove, attenta al metodo, ai nuovi media, a una società multiculturale e plurilingue. Adeguandosi alle Raccomandazioni del Parlamento Europeo (2006/962/CE), la scuola dovrebbe fornire le chiavi per apprendere ad apprendere.

Quali sono allora gli obiettivi di fondo di queste innovazioni? Fare scuola in modo che ogni ragazzo sviluppi competenze nelle diverse discipline, raggiungendo i traguardi nazionali indicati. Dunque non si chiede agli alunni di memorizzare contenuti, bensì di sviluppare capacità di agire nelle diverse circostanze, con una propria autonomia, imparando a ragionare, capire e pensare con la propria testa. A conti fatti, si chiede alla scuola di trattare i ragazzi non come massa acritica ma come persone, aprendo loro nuovi orizzonti culturali, interessandoli a quello che studiano, sviluppando curiosità sui fatti della vita e della esperienza umana, curando in particolare quello che in didattichese si chiama “motivazione”.

La legge prevede l’eliminazione del mitico Programma da seguire, ma chiede agli insegnanti la fatica di scegliere gli argomenti da trattare, soffermandosi su quelli più importanti e trascurandone altri, delineando, insieme ai colleghi, un progetto che caratterizzi culturalmente la propria scuola.

Se la legge venisse attuata, gli insegnanti potrebbero sottrarsi al conformismo didattico, mediato in gran parte dalla struttura dei libri di testo, dalla routine della tradizione millenaria, dalle tipiche infarinature superficiali; potrebbero portare nuova cultura e nuova capacità organizzativa in un clima scolastico da sempre caratterizzato da un sostanziale e acritico autoritarismo. Ma la tradizione è (quasi) sempre contraria alle innovazioni: “non si sa cosa potrebbe succedere, con questi ragazzi…, altrimenti quelli dell’altra classe…, altrimenti saranno impreparati per il prossimo ciclo…”

In una scuola attenta al loro sviluppo culturale, i ragazzi troverebbero forse il coraggio di proporre le loro idee sui diversi argomenti, talvolta discutendo il significato di quello che viene loro insegnato, dichiarando onestamente di avere o non avere capito qualcosa, senza correre il rischio di passare per sovversivi, maleducati o semplicemente piccoli imbroglioni senza voglia di studiare.

I libri potrebbero diventare meno pesanti, e i compiti meno ossessivi.

Se la legge venisse attuata si potrebbero sviluppare meglio le idee potenti e significative a partire dalle quali ogni disciplina struttura il proprio modo di studiare e comprendere il mondo; capire come intorno a queste “grandi idee” si organizzino conoscenze vecchie e nuove, talmente nuove, a volta, da cambiarne il significato e il ruolo: in biologia, la teoria dell’evoluzione non è un capitolo di libro ma un sistema di pensiero che interpreta le trasformazioni correlate dell’intero sistema viventi-ambiente; in chimica la struttura della materia…, in fisica la teoria della relatività… .

Se la legge venisse attuata, i docenti potrebbero insegnare ad avvalersi delle conoscenze a disposizione in rete, senza pretendere di inserirle tutte nella memoria biologica dei ragazzi. Sarebbe importante imparare a estrarre dalle banche dati, ormai disponibili a tutti, le informazioni da utilizzare quando servono o quando si voglia approfondire un argomento: è necessario sapere a memoria l’anno della Defenestrazione di Praga? O non bisognerebbe lavorare sull’affidabilità delle fonti per sapere dove trovare queste informazioni con un appropriato clic?

Le Indicazioni chiedono insomma agli insegnanti di uscire dalla routine di un insegnamento frettoloso e onnicomprensivo, di limitare la quantità di nozioni curandone invece la qualità, aiutando i ragazzi a padroneggiarle e a elaborarle personalmente. Per esempio, dando loro il diritto di esprimersi e discutere.

Riempire con crocette le domandine di verifica non basta a costruire conoscenza: bisogna rifondare i metodi di insegnamento che danno accesso alla attuale complessità culturale. Servono il patrimonio umanistico e linguistico, le scienze e le arti, le lingue e la tecnologia per formare cittadini consapevoli. A scuola si può cominciare a sviluppare autonomia di pensiero e parola, padroneggiando sia le nuove conoscenze sia i nuovi modi di costruirle, adeguando il modo di studiare ai rapidi e sostanziali cambiamenti del nostro ambiente di vita.

Con in mente una prospettiva di futuro, l’obiettivo non è formare piccoli saccenti o superficiali ignoranti, ma dare ai ragazzi opportunità di crescita sviluppando in loro quelle basi culturali necessarie per vivere, da adulti, in un mondo che continuerà a cambiare e a evolvere rapidamente.

Purtroppo la scuola è un sistema tradizionalmente conservativo: le concezioni aristoteliche sono state trasmesse acriticamente per quasi duemila anni, e persino scienziati di genio come Galileo hanno dovuto pagare un prezzo assai alto per conservare la loro libertà di pensiero contro i sacri dettami delle Istituzioni.

Credits immagine: ajari/Flickr CC

 

6 Commenti

  1. Certo che è importante insegnare ad essere critici e ad imparare (e i bravi insegnanti lo hanno sempre fatto), ma la sconsolante descrizione è quella di un mondo di ignoranti diviso in chi è in grado di trovare la risposta su google (magari una bufala ben articolata) e chi non è capace.
    certo che serve sapere (non con precisione) la data della defenestrazione di Praga, serve per contestualizzare l’evento con altri che vengono narrati due capitoli dopo, mamagari sono contemporanei, serve per contestualizzare con ciò che avveniva contemporaneamente nel campo dell’architettura e dell’arte o della filosofia.
    se invece preferiamo giovani che si disabituino sempre di più ad acquisire la conoscenza perchè ritengono che tanto basti avere una connessione internet prego, si faccia pure: potranno passare più tempo alla pleistescion o a diteggiare sugli smartfon dando il loro contributo al consumismo.
    nel frattempo i cinesi, che invece sanno cosa è lo spirito di sacrificio, potranno usare i nostri crani vuoti come coppini per il riso.

  2. Articolo banale, populistico e disinformato.
    E che, come spesso in questi casi, sottende (non tanto implicitamente) che gli insegnanti siano degli incapaci.
    La scuola deve insegnare ad apprendere: toh, che novità. E noi che facciamo tutti i giorni?

  3. La scuola come contesto semplificatore

    – Gli studenti arrivano a scuola come imprevedibili ‘macchine non banali’
    – Macchine cioè dove, assegnato un input, l’output è sempre in parte imprevedibile
    – Sembra che lo scopo della scuola sia raggiunto quando tutti gli studenti sono stati trasformati in ‘macchine banali’
    (Von Foerster, 1977)

    E’ certamente vero che a una piccolissima parte di alunni tocca in sorte un insegnante bravo, impegnato a sviluppare cultura e conoscenza nei suoi allievi. Tuttavia i progetti di formazione continua o di formazione in servizio per gli insegnanti sono al di là da venire, e Internet funziona solo in parte per gli eventuali autoaggiornamenti. Questo comporta il fatto che una buona parte di insegnanti resti tradizionalmente attaccata a metodi didattici obsoleti e trasmissivi, alcuni dichiarano esplicitamente di sentirsi inadeguati o ignoranti. Di conseguenza, purtroppo, molti non sono capaci (o forse solo interessati) a collegare gli eventi che si succedono nelle diverse parti del mondo e a contestualizzarle culturalmente. L’insegnante che non è bravo, o interessato, non si occupa molto di quello che succede nella mente dei suoi ragazzi, ma ritiene possibile svolgere il suo mestiere assegnando pagine da studiare (da… a…) secondo un fantomatico Programma, possibilmente senza restare indietro rispetto al collega della classe parallela. Le periodiche “verifiche” verificano proprio come ciascun ragazzo sia riuscito a collocare nella sua memoria le informazioni contenute nei libri. Da notare che, per esempio, i testi che riempiono gli zaini degli studenti di scuola media contengono, per anno, circa 18 kg di informazioni delle diverse materie, da imparare e da verificare appositamente.
    Il problema, secondo me, è domandarsi se non sia proprio questo modo di accumulare acriticamente nozioni che – come dice Von Foerster – porti al conformismo, al far finta di aver capito, alla superficialità culturale. 3300 esercizi di matematica proposti dal testo in un anno, una sessantina di date celebri, il nome di molti papi e di alcuni imperatori… sono veramente utili ai ragazzi per crescere come persone civili e responsabili, o sarebbe più utile per loro affrontare dialetticamente poche, essenziali problematiche che mettano in luce la varietà e la complessità dei modi di guardare il mondo specifici delle diverse discipline? E’ un sacrificio utile imparare meccanicamente a risolvere espressioni di matematica, o a ricordare una ventina di complementi, o forse questo modo di insegnare è decisamente un ottimo sistema per togliere qualunque interesse per la cultura e umiliare l’intelligenza dei nostri ragazzi?

  4. Buongiorno a tutti, perfettamente d’accordo con Paolo Cesario.
    Gli insegnanti bravi, che stimolano la curiosità e l’interesse degli studenti ci sono sempre stati, anche se non sono la maggioranza, direi (come dico sempre, non è sufficiente vincere un concorso per avere il dono dell’insegnamento e la capacità di trasmettere il sapere).
    La dr.ssa Arcà (mi pare vi aver visto che è biologa, come me, siamo colleghi!) cita, come esempio a sostegno della sua tesi, Galileo: ma, secondo Lei, Galileo su quali basi si è formato? Non su basi scientificamente solide, costruite con tanto studio, molta applicazione e incentrate su un metodo, probabilmente, secondo le concezioni pedagogiche attuali, un po’ noioso e poco stimolante? Solo su delle basi solide, infatti, si può sviluppare la creatività e può emergere il talento. Mi pare che confonda, non me ne voglia, la libertà di pensiero (con la quale, secondo me, in buona parte, ci si nasce, come caratteristica della singola persona, allo stesso modo di qualsiasi altra “attitudine”/”predisposizione” del carattere e del comportamento; in pratica, genio si nasce) con la capacità di formare una persona con lo studio, di strutturarne la mente e le capacità cognitive.
    Racconto sempre che se non avessi incontrato (per fortuna tanti) insegnanti, e non avessi avuto una famiglia, che mi hanno obbligato (nel senso letterale del termine) a studiare, con quel metodo “noioso” che tanto non le piace, probabilmente non mi sarei mai entusiasmato allo studio come lo sono ora e, sicuramente, non avrei avuto le molte soddisfazioni scientifiche e culturali che ho ricevuto nella mia vita professionale.
    Un saluto cordiale.

  5. A proposito di Galileo: nonostante la sua seria formazione di tipo aristotelico, Galileo non aveva maestri che gli facessero imparare a memoria il nome dei satelliti di Giove. E forse non doveva neppure imparare, nell’età che corrisponde ad una nostra terza di primaria, la storia della fotosintesi: cosa che i nostri bravi scolaretti invece fanno, senza avere alcuna idea sul significato di una reazione chimica e senza neppure farsi domande sulla strana trasformazione dell’energia solare in energia chimica. Fin da piccolo, piuttosto, Galileo disponeva di quello che oggi potrebbe chiamarsi officina, un luogo dove imparava a cercare sperimentalmente, alle sue domande, proprio le risposte che non riusciva (e non poteva) trovare sui libri. Più grande, costruiva piani inclinati, inventava sistemi per misurare le velocità di caduta degli oggetti che faceva scivolare sui suoi piani, disponeva campanellini nei posti che gli sembravano convenienti, calcolava i tempi regolandosi sullo sgocciolio dei barattoli, passava le notti a guardare Giove col suo telescopio, e da vecchio si divertiva a scrivere, sfidando l’Inquisizione e nonostante l’abiura, i suoi Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. Non so se geni si nasce, ma sono abbastanza sicura che una normale intelligenza si sviluppa in contesti stimolanti, dove si ha la possibilità di avere delle curiosità che spingono a ragionare e a pensare, dove si possono progettare e costruire esperimenti e non solo ripetere (quando va bene) “quello” per dimostrare che le bottiglie vuote contengono aria, o quello per dimostrare che il polistirolo galleggia e il ferro no. Non è noioso lo studio in sè, ovviamente, ma lo diventa quando non riesce a far nascere alcuna idea personale, quando è “infarinatura”, come si dice in gergo didattico, o quando è soltanto un modo di farsi lasciare in pace dall’insegnante.

  6. Gentile dr.ssa,
    capisco persino io, educato con tanto “noioso” studio, che se un bambino fa lezione in una grotta e l’insegnante si esprime con suoni gutturali, probabilmente, riceverà meno stimoli rispetto ad uno che studia in un’aula piena di colori, con lavagne multimediali e stimoli ripetuti e vari. Resta però eluso il discorso metodologico. Le citerò alcuni passi di un testo che consiglio vivamente (“Togliamo il disturbo” – Paola Mastrocola – Giunta edizioni) la cui lettura renderei obbligatoria in tutte le scuole (chiaramente sotto forma di esperimento, altrimenti ci si annoia! Mi permetta la battuta!). “La scuola italiana elementare…, sull’onda di un rodarismo genericamente inteso, ha cominciato a pensare che fare grammatica fosse male, e scrivere favole tutti insieme fosse molto meglio…. Così abbiamo dato inizio alla scuola del gioco…. E se la fantasia invece avesse bisogno di un pensiero strutturato e di molte conoscenze? Se la fantasia nascesse proprio dal rigore, dalle regole, dal sapere, anche quello oggi ritenuto più piatto? … La fantasia forse è un risultato finale, non un inizio. Ed è il risultato di un lavoro lungo e faticoso, sulla lingua, lo stile, le regole, la tradizione. Se non si maneggia il linguaggio, se non si passano anni a studiare, immagazzinare nozioni, eseguire esercizi, leggere libri, annotare pensieri, ripetere lezioni e anche annoiarsi, cosa mai si può creare?”. E poi un altro passo, fondamentale, del libro che spiega secondo me perché la scuola è stata distrutta (sì, distrutta): “…l’inversione della responsabilità: se i figli non studiano, la colpa è degli insegnanti che non li sanno motivare. Sono gli insegnanti i responsabili dell’insuccesso scolastico, e vanno infatti valutati e formati ex novo”. Infine, due osservazioni: 1) io non l’ho conosciuto Galileo, ma sono convinto che i satelliti di Giove li conoscesse, non solo a memoria, ma ne sapesse indicare tutte le caratteristiche fisiche note al tempo ; 2) l’esempio della fotosintesi: concordo con quanto dice, ma il problema va ricercato, molto semplicemente, nel fatto che, forse, non viene data la necessaria propedeuticità all’insegnamento delle nozioni e dei concetti e non è dovuto alla mancata applicazione di idee molto affascinanti (ma, secondo me, spesso, vuote di senso) come il “saper imparare”. Cordialità.

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