Mielofibrosi, ecco il primo farmaco che migliora la sopravvivenza

Arriva anche in Italia, ormai in ogni Regione, il primo farmaco specifico per il trattamento della mielofibrosi a essere rimborsato dal Sistema Sanitario Nazionale. Ruxolitinib, questo il nome della molecola che ha rivoluzionato lo scenario terapeutico di questa malattia rara del sangue, è stato scoperto grazie a una serie di studi a cui hanno contribuito in maniera significativa alcuni team di ricerca italiani. Fondamentale è stata nel 2005 la scoperta di una mutazione a carico del gene JAK2, responsabile dell’iperattivazione della via molecolare JAK/STAT, causa dell’incontrollata proliferazione delle cellule del sangue. E’ questo infatti il bersaglio contro cui agisce il nuovo farmaco, bloccando così questa produzione eccessiva.

“La mielofibrosi è una neoplasia cronica del sistema emopoietico. Si tratta di una forma tumorale che colpisce le cellule staminali del midollo osseo dalle quali hanno origine le cellule del sangue, come i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine”, ha spiegato Alessandro Maria Vannucchi, professore associato di ematologia presso l’Università degli Studi di Firenze. Questa patologia rara, con incidenza di un individuo ogni 100.000, determina la graduale comparsa nel midollo osseo di un tessuto fibroso che ne sovverte la struttura. In questo modo viene modificata la sua funzionalità, con conseguente alterazione della produzione delle cellule del sangue. La mielofibrosi è una malattia grave con una sopravvivenza globale mediana di 5,7 anni; nei casi più gravi è inferiore a 2 anni.

La manifestazione clinica più frequente nella mielofibrosi è l’ingrossamento della milza (splenomegalia), che ingrossata preme sullo stomaco e sull’intestino provocando sintomi come difficoltà digestive, sensazioni di pesantezza, fastidio a livello dell’addome, sazietà precoce e alterazioni delle normali funzioni intestinali. In alcuni casi la milza è così ingrossata da occupare gran parte dell’addome fino a comprimere i polmoni e il rene, tanto che nei casi più gravi è necessaria la sua rimozione chirurgica. Oltre alla splenomegalia il malato affetto da mielofibrosi sperimenta dei sintomi estremamente debilitanti che possono impedire di svolgere le normali attività quotidiane e lavorative e di avere una normale vita sociale e di relazione. Il più comune è la fatigue o astenia, che comporta stanchezza, debolezza e dolori muscolari. A essa si aggiungono febbre, sudorazioni notturne, prurito diffuso in tutto il corpo (che peggiora con il contatto con l’acqua, noto anche come prurito acquagenico) e perdita di peso dovuta all’inappetenza e alle difficoltà digestive.

“I due studi condotti per la valutazione dell’efficacia (COMFORT I e II) di ruxolitinib, che hanno coinvolto 528 pazienti con mielofibrosi hanno dimostrato che il farmaco agisce sia sulla splenomegalia (riduzione media del 50%) sia sui segni clinici della malattia, come prurito, dolore osseo, muscolare e addominale. Il più grande vantaggio derivante dall’utilizzo del farmaco, però, è in termini di aumento della sopravvivenza”, ha spiegato Francesco Passamonti, direttore dell’U.O.C. di Ematologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Ospedale di Circolo di Varese. Dagli studi infatti, è emersa una sensibile riduzione del rischio di morte. Nello studio COMFORT-I si è osservata una riduzione della mortalità del 31% e nello studio COMFORT-II una del 52%, con il confronto verso la migliore terapia convenzionale.

“Il 60% dei pazienti”, ha aggiunto Vannucchi, “è interessato da una mutazione a carico del gene JAK2, scoperta che ha cambiato la storia della patologia e ha aperto la strada ai nuovi farmaci JAK inibitori. Nel 2006 sono state invece scoperte le mutazioni a carico del gene MPL (5-10% dei malati), mentre nel 2013 quelle a carico del gene CARL che interessano il 20% dei malati”. “Aver identificato tali mutazioni”, ha concluso Passamonti, “ha permesso di sviluppare farmaci, come ruxolitinib, che vanno a bloccare il meccanismo alla base della patologia”.

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