Influenza, quando vaccinarsi

Si torna a parlare di influenza. Un’anziana, ricoverata al sant’Orsola di Bologna, è stata infatti identificata come il probabile primo caso di influenza per la stagione a venire, e la completa caratterizzazione del virus è ancora in corso. Se il virus in questione fosse proprio uno dei più attesi, sarebbe confermato anche l’arrivo in anticipo della stagione influenzale. Solitamente infatti i primi casi di isolamento arrivano intorno alla metà di novembre e, negli ultimi anni, il picco viene raggiunto intorno alla fine di gennaio. L’evoluzione dell’influenza dipenderà, come sempre, dal clima, dai virus effettivamente in circolo e dai dati della copertura vaccinale. Perché la vaccinazione non è solo un atto individuale, anzi.

A ribardirlo a Wired.it è Roberto Ieraci del Centro vaccinazioni internazionali e Coordinamento attività vaccinale e infettivologo della Asl Roma E, che chiarisce subito un concetto chiave:“Vaccinare il soggetto a rischio per ridurre la sintomatologia e le complicazioni non basta per arginare la diffusione dei virus influenzali: è consigliabile vaccinare anche la cerchia di persone intorno al soggetto a rischio, dai famigliari ai medici stessi, così da creare una sorta di cuscinetto immunologico che impedisca al virus di diffondersi, anche poco”. In questo modo la protezione si allarga: dall’individuo ai suoi contatti, all’intera società. Ma l’Italia, lo sappiamo, con le vaccinazioni ha un problema che colpisce anche quelle influenzali, complici anche i casi del vaccino Fluad dello scorso anno. La presunta pericolosità del vaccino era stata poi smentita, ma lo spauracchio innescato dal caso ha causato un calo nella vaccinazioni dello scorso anno secondo Ieraci, che ha determinato anche un aumento del numero di decessi da influenza: 160 nella stagione 2015/2016 contro i 16 della stagione precedente, ricorda il ministero della Salute. Dieci volte tanto.

In effetti i dati sulle vaccinazioni della stagione scorsa sono stati tra i più bassi registrati negli ultimi anni e solo tra gli anziani, una della popolazione cui è particolarmente raccomandato il vaccino anti-influenzale, la copertura è scesa quasi del 6% rispetto alla stagione precedente. Pochi i vaccinati anche tra i casi gravi con patologie croniche, l’altra grossa fetta della popolazione, di tutte le età, per cui si consiglia la vaccinazione. Da cominciare, come consigliato nella circolare del Ministero, a partire dalla metà di ottobre: “Il caso identificato a Bologna non significa molto di per sé: secondo la nostra situazione climatica e dai dati epidemiologici delle stagioni precedenti, l’autunno rimane per l’Italia il periodo migliore per ricevere il vaccino”, spiega Ieraci.

La copertura vaccinale comincia circa 10-15 giorni dopo e mediamente dura cinque mesi, ma diversi sono i fattori che possono influenzare la reale efficacia protettiva del vaccino. A partire dall’età del soggetto: “Negli anziani, per esempio”, spiega Ieraci: “l’immunosenescenza, ovvero l’invecchiamento del sistema immunitario, causa una diminuzione della copertura vaccinale. È questo il motivo per cui nei soggetti sopra i 65 anni, o in quelli che per altri motivi sono poco rispondenti, sono più consigliati i vaccini contenenti l’adiuvante [MF59, nda], perché in questo modo si riesce a potenziare e prolungare la risposta immunitaria, così come con i vaccini intradermici, portandola intorno mediamente intorno ai sei mesi”. Gli altri tipi di vaccini, i cosiddetti convenzionali (vaccini split o subunità, rispettivamente contenenti particelle frammentate o solo antigeni di superficie delle particelle virali) sono più adatti per il resto della popolazione, come un soggetto giovane non a rischio.

L’obbiettivo minimo ideale di copertura vaccinale sarebbe del 75% nei soggetti per cui è raccomandata (anziani e persone a rischio). Ma non c’è solo la copertura vaccinale a influenzare il successo o meno dei vaccini. “L’efficacia protettiva dipende anche dalla concordanza tra il vaccino e i virus effettivamente circolanti” spiega Ieraci. Il fenomeno del mismatch è abbastanza noto agli infettivologi, ed è anche tra le ragioni dell’introduzione dei cosiddetti vaccini tetravalenti, una novità nel panorama dei vaccini influenzali italiani. I vaccini tetravalenti infatti, a differenza dei trivalenti tradizionali usati contro due ceppi di virus influenzale A e uno B, sono pensati per combattere due ceppi di virus di tipo A e due di tipo B, incluso anche quello teoricamente meno circolante. “Non ci sono particolari indicazioni relative alla somministrazione del tetravalente. È stato introdotto da poco e ci sono pochi dati sulla reale efficacia dell’aggiunta di un antigene in più”, aggiunge Ieraci.

Va detto poi che i virus si modificano continuamente e questo può influenzare la reale efficacia dei vaccini. Così come il pattern immunologico di ciascuno di noi: “Ognuno di noi ha una storia immunologica, un bagaglio di difese accumulate nel tempo all’esposizione di diversi patogeni. I bambini per esempio ne hanno di meno ma ad eccezione di casi particolari, come nel caso di bimbi diabetici, non ci sono raccomandazioni per il vaccino influenzale”. Anche nei casi però in cui il vaccino sarebbe vivamente consigliabile le campagna vaccinali falliscono, continua Ieraci, tanto che il Lazio quest’anno ha avviato una campagna di offerta attiva per aumentare la copertura nei soggetti più a rischio di complicazioni, quali i diabetici appunto. Di tutte le età.

Via: Wired.it

Credits immagine: Lance McCord/Flickr CC

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