Leucemia mieloide cronica: così funziona l’ematologia di precisione

Una sola mutazione genetica, presente esclusivamente nelle cellule malate. È la dannazione e insieme la fortuna dei pazienti che soffrono di Leucemia Mieloide Cronica (Lmc), un tumore del sangue che colpisce per lo più persone sopra i 60 anni. È grazie alla scoperta, all’interno della cellula leucemica, del gene anomalo (denominato BCR-ABL) e della proteina che da esso deriva, che oggi è possibile fare diagnosi in modo rapido e preciso, andando a vedere se nei pazienti c’è questa alterazione, e usare farmaci che bloccano l’azione della proteina derivata da questo gene, la tirosin chinasi, gli “inibitori delle tirosin chinasi” (TKI). È l’esempio più chiaro e di successo dell’ematologia di precisione, cioè dell’idea di poter trattare il malato colpendo specifici bersagli molecolari. Monica Bocchia, direttore U.O.C. Ematologia, Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, Siena, ci spiega a che punto siamo e cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro.

Nella LMC terapie a bersaglio molecolare e metodiche diagnostiche avanzate hanno portato a percentuali elevatissime di sopravvivenza e una qualità di vita paragonabile a quella della popolazione generale. Qual è lo stato dell’arte delle terapie?

Già da diversi anni abbiamo a disposizione gli inibitori delle tirosin-chinasi, il cui capostipite è imatinib: farmaci intelligenti perché, mirando solo la cellula malata, bloccano la proliferazione leucemica e riducono drasticamente le cellule di LMC a livelli così bassi per cui solo indagini di biologia molecolare molto sensibili riescono a “vedere” la poche molecole residue del gene BCR-ABL. Questa risposta agli inibitori della tirosin chinasi si chiama “risposta molecolare” e si verifica nella maggior parte dei pazienti trattati. Un paziente in risposta molecolare non ha alcun segno o sintomo di malattia e ha una sopravvivenza sovrapponibile a quella di una persona sana.

Cosa succede se un paziente in “risposta molecolare” interrompe la terapia?

Purtroppo, anche quando otteniamo la miglior risposta molecolare – profonda o completa – non possiamo ancora parlare di guarigione: come emerge da studi controllati, la sospensione della terapia con TKI si accompagna a una ripresa della malattia in oltre il 60% dei pazienti e pertanto questi farmaci devono essere assunti per tutta la vita. Più recentemente, però, abbiamo visto che farmaci di seconda e terza generazione, ancora più attivi nell’inibizione di BCR-ABL, colpendo target diversi nella via di produzione della proteina riescono a determinare risposte molecolari ancora più profonde e precoci e questo lascia sperare che in futuro molti più pazienti possano nel tempo sospendere la terapia senza andare incontro ad una ripresa della malattia.

Come si può fare quindi a stabilire se un paziente è davvero guarito?

Da poco tempo sappiamo che le cellule “primordiali” che danno origine alla malattia, le cellule staminali di LMC, si riducono moltissimo durante il trattamento con TKI di seconda generazione, ma probabilmente una parte di queste cellule “si addormenta” senza essere eliminata del tutto. Queste cellule staminali “residue” sono la fonte da cui può riprendere la malattia dopo la sospensione del TKI. È però molto difficile riconoscere e quantificare le cellule staminali residue di LMC perché si tratta di numeri piccolissimi e perché sono molto simili alle cellule staminali normali. Tuttavia, conoscere se e quante cellule staminali di LMC sono ancora presenti nel paziente in risposta molecolare durante la terapia con TKI ci permetterebbe di identificare con più certezza i pazienti che possono davvero sospendere l’inibitore senza rischiare la ripresa di malattia. Il nostro gruppo di ricerca, insieme ad altri centri italiani, sta mettendo a punto metodiche innovative in grado di farci “vedere” le cellule staminali ancora presenti mediante un normale prelievo di sangue. Ciò permetterebbe di seguire l’andamento della malattia con altri occhiali, valutando accanto alla “risposta molecolare” classica anche una sorta di “risposta staminale”. Le informazioni che potremmo ottenere con questo modo nuovo di monitorare la malattia durante la terapia con TKI ci permetterebbero sia di comprendere ancora meglio le basi biologiche della LMC, che di ottimizzare la terapia con TKI, avvicinando sempre di più la prospettiva di guarigione.

Per operare con precisione l’ematologo ha bisogno di poter e saper leggere una serie di sofisticati esami di laboratorio. Quanto è importante, quindi, la collaborazione con il biologo?

La collaborazione tra medico e biologo è fondamentale nella gestione dei pazienti con LMC, soprattutto perché il riscontro di un valore elevato di BCR-ABL può significare la perdita di risposta alla terapia e la necessità di cambiare tipo di inibitore. Va riconosciuto il grande sforzo dei biologi italiani nell’armonizzare i test di biologia molecolare al fine di identificare e quantificare in modo standardizzato e validato la presenza del gene BCR-ABL. Va in questa direzione la Rete Labnet, un esempio di eccellenza nella ricerca e nell’assistenza per il nostro Paese: poter accedere ad un dato di biologia molecolare affidabile, permette al medico non solo di seguire l’andamento della malattia in modo molto preciso, ma anche di confrontare i dati dei propri pazienti con altri colleghi, in poche parole “parlare la stessa lingua”. Questa uniformità di valutazione della malattia e della risposta molecolare alla terapia permette inoltre di sviluppare molti studi di ricerca nella LMC volti a migliorare sempre di più la sopravvivenza e la qualità di vita dei pazienti.

1 commento

  1. Sono felicissima per chi oggi ha molte possibilità di sopravvivenza, purtroppo 17 anni fa ancora era in sperimentazione la ricerca della compressa salva vita…e mio marito dopo 2 trapianti non ce l’ha fatta! Grazie a voi ricercatori….e a chi crede nell’ail come me!

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