Si può cambiare la preferenza per un certo tipo di facce

facce
(Credits: cristian/Flickr CC)
facce
(Credits: cristian/Flickr CC)

La prima impressione è quella che conta. Lo si dice spesso, quando si vede una faccia nuova. Anche se questo non sempre è corretto, è indubbio che le sensazioni, positive o negative, suscitate dalla vista di un viso, talvolta influenzino profondamente le nostre relazioni personali. Ma da quale parte del nostro cervello si originano queste emozioni? I risultati di una ricerca pubblicati su PLOS Biology aiutano a rispondere, in parte, alla domanda, suggerendo che sia i sentimenti positivi sia quelli negativi si generino in una sola area del cervello, la corteccia cingolata, situata nella regione superiore della superficie mediale dei lobi frontali. Il legame tra l’attività cerebrale nella corteccia cingolata e le impressioni prodotte dai volti è così forte, secondo i ricercatori giapponesi che hanno condotto lo studio, che, accendendo in modo specifico queste aree neurologiche, si riescono a influenzare persino i sentimenti percepiti.

I risultati sono stati ottenuti attraverso imaging a risonanza magnetica (Mri), una tecnica che produce immagini dell’attività cerebrale attraverso la risonanza magnetica nucleare, usata prevalentemente a scopi diagnostici. I ricercatori hanno selezionato 24 partecipanti allo studio, ai quali è stato chiesto di classificare, su una scala da 1 a 10, i volti di centinaia di soggetti. Nel contempo, i ricercatori registravano l’attività nella corteccia cingolata attraverso la risonanza e scoprivano schemi di attivazione chiari e distinti sia per le sensazioni positive sia per quelle negative. Questa è stata per i ricercatori una prima sorpresa: “Fino a questo momento si pensava che diverse regioni cerebrali presiedessero a questa funzione” spiega Yuka Sasaki, uno dei co-autori della Brown University a Kyoto. “Al contrario, i nostri dati mostrano che la corteccia cingolata è responsabile della generazione di due sensazioni opposte, che producono pattern di attività differenti nella stessa area cerebrale”.

Secondo questi dati, quindi, il tipo di sensazioni suscitate dalla vista dei diversi volti accende specifiche zone di attività neurologica. I ricercatori hanno quindi provato a produrre l’effetto contrario, cercando cioè di influenzare le emozioni avvertite dai partecipanti attivando il circuito cerebrale specifico. Per fare questo, hanno ripresentato ai partecipanti immagini di visi precedentemente classificati come “neutri”, cioè non associabili a sensazioni buone o cattive. In seguito, i volontari sono stati divisi in due gruppi e a ciascuno è stato somministrato un esercizio apparentemente non correlato, che spingeva gli individui ad attivare le regioni della corteccia cingolata interessate alle sensazioni positive o negative. I partecipanti spinti verso l’accensione delle aree positive miglioravano, in modo piccolo ma significativo, la loro valutazione dei volti, mentre coloro che appartenevano all’altro gruppo, in cui venivano attivati i pattern delle emozioni negative, peggioravano la loro percezione. Il tutto era proporzionale al grado di attivazione della corteccia cingolata. “L’induzione di attività nella corteccia cingolata può produrre un cambiamento delle sensazioni associate ai volti, in una direzione specifica e indotta dall’operatore” spiega Yuka Sasaki.

Ma quali sono le possibili applicazioni di questo studio? Secondo Takeo Watanabe, un altro coautore dello studio, persone traumatizzate che associano una particolare visione a un’esperienza dolorosa potrebbero trovare sollievo da un approccio di questo tipo, che produce un cambiamento, seppur minimo, della loro percezione sensoriale. “Anche se le variazioni osservate sono piccole, queste sono significative, a fronte di un periodo di apprendimento durato solo pochi giorni. Al contrario, le terapie cliniche di solito durano diverse settimane, e un trattamento più prolungato potrebbe avere effetti più importanti.” Sostiene Watanabe.

Questo tipo di apprendimento associativo collegato alla Mri e chiamato “DecNef” (da decoded neurofeedback) era già stato usato dagli stessi ricercatori per indurre la percezione di un colore a seguito di un determinato stimolo. “In questo nuovo studio, l’applicazione della tecnica è stata fatta su una funzione con un importante ruolo sociale ed emotivo, poiché il riconoscimento facciale è associato alle emozioni che proviamo” conclude Watanabe.

Riferimenti: PLOS Biology

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here