L’ossigeno sulle coste è diminuito di 10 volte

via Pixabay

di Lorenzo Tenuzzo

Tonnellate di plastica alla deriva, diminuzione delle risorse ittiche, riscaldamento dei mari e non ultimo la deossigenazione delle acque. Un recente studio, pubblicato su Science e richiesto dalla commissione oceanografica intergovernativa dell’Unesco, ha approfondito quest’ultimo problema: la superficie degli oceani senza ossigeno è quadruplicata dal 1950 ad oggi – si parla di milioni di chilometri quadrati in più – mentre le acque costiere con livelli di ossigeno molto bassi sono aumentate di 10 volte. La riduzione di ossigeno nei mari di tutto il mondo è stimata circa pari al 2%, un numero piccolo solo in apparenza. I ricercatori, coordinati da Denise Breitburg, del centro di ricerca ambientale Smithsonian, hanno realizzato una mappa delle regioni oceaniche con concentrazioni di ossigeno inferiori alla norma.

L’ossigeno negli oceani – non inteso come l’ossigeno che forma la molecola d’acqua con due atomi di idrogeno (H2O), ma come il gas disciolto nelle acque – è sempre stato distribuito in maniera non uniforme. Negli oceani, infatti, si trovano ambienti molto diversi tra loro. Le barriere coralline sono zone ricche di vita, mentre altre regioni sono quasi totalmente deserte a causa della mancanza di correnti che trasportano sostanze nutritive. La maggior parte delle specie marine non può vivere in ambienti troppo poveri d’ossigeno. Un aumento delle zone inospitali a causa della diminuzione di questo gas quindi è un problema sia per le specie marine, sia per quelle popolazioni la cui economia è legate alle risorse ittiche. Gli scarsi livelli di ossigeno rilevati recentemente sono dovuti a diverse cause, tutte collegate ad attività umane.

Il riscaldamento globale è fra le cause della riduzione dell’ossigeno nel mare, dato che genera un aumento medio di temperatura delle acque e l’ossigeno è meno solubile in acque più calde. Inoltre gli animali respirano a ritmi maggiori aumentando il consumo del gas. Il riscaldamento globale causa anche un rallentamento della circolazione termoalina, cioè del grande flusso di correnti oceaniche che attraversa tutto il pianeta, causato dalla variazione di temperatura e della salinità delle acque. Se questo sistema circolatorio dell’oceano rallenta, lo scambio di acqua superficiale con quella in profondità diminuisce, rallentando anche il rinnovamento in termini d’ossigeno che portano le acque profonde.

Le zone blu sono quelle in cui i livelli di ossigeno a 300 m di profondità sono inferiori a 2 milligrammi per litro. Le zone rosse invece sono le zone di ipossia (carenza di ossigeno) costiere, in cui le attività umane di scarico dei nutrienti hanno causato una accelerazione nel consumo di ossigeno nelle acque (fonte: Science).

Come si vede dalla mappa, molte zone critiche per quanto riguarda i livelli d’ossigeno sono dislocate lungo le coste, specialmente di paesi ad alta industrializzazione. Un altro dato preoccupante, emerso dallo studio, è infatti lo sversamento in mare di particolari sostanze chimiche. Oltre ai danni ambientali causati dalla contaminazione, i rifiuti umani generano l’eutrofizzazione delle acque – in particolare con azoto e fosforo – ovvero una condizione di sovrabbondanza di sostanze nutritive per le piante marine. L’eccessivo sviluppo delle alghe causa poi la comparsa di microbi che consumano ossigeno. Questo avviene a causa di sostanze organiche come scarti agricoli e fertilizzanti. I microbi che proliferano con scarsi livelli di ossigeno producono l’ossido di azoto, un gas serra – cioè in grado di trattenere il calore nell’atmosfera – 300 volte più forte dell’anidride carbonica.

Tutto ciò causa la formazione e la preoccupante crescita di enormi porzioni di mare che vengono chiamate zone morte. Le zone morte costiere note nel 1950 erano una cinquantina. Oggi sono più di 500, e potrebbero essere molte di più visto che non tutti i paesi vengono monitorati nello stesso modo. Si stima che grazie agli oceani possano nutrirsi circa 500 milioni di persone, specialmente nei paesi più poveri, e che circa 350 milioni di individui lavorino in attività collegate al mare. L’estinzione di numerose specie marine a causa della deossigenazione non sarebbe solo un problema in termini di ecosistemi, ma anche a livello economico e sociale.

Secondo Denise Breitburg, intervistata dal Guardian, i maggiori eventi di estinzione nella storia del pianeta si sono verificati per fenomeni di riscaldamento climatico e deossigenazione. “E’ un problema che possiamo risolvere” sostiene però Breitburg. “Il contrasto al riscaldamento globale richiede uno sforzo collettivo. Però anche azioni locali possono avere un buon impatto, come con il Tamigi in Inghilterra”. Infatti in passato è stata notevolmente migliorata la qualità delle acque del fiume, che era stato considerato biologicamente morto, grazie ad un attento controllo sulle fognature e sugli sversamenti di fertilizzanti usati in agricoltura.

Secondo Robert Diaz, dell’Istituto di scienze marine della Virginia, “il problema della deossigenazione non sembra essere una priorità per i governi in ogni parte del mondo. Sfortunatamente la mortalità dei pesci costringerà tutti a fare i conti con la gravità del problema”.

Riferimenti: Science

Articolo prodotto in collaborazione con il Master SGP di Sapienza Università di Roma

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