La plasticità neurale può complicare il recupero della vista

    In alcuni casi oggi la medicina è in grado di restituire parzialmente la vista anche a persone che sono state cieche sin dalla nascita. In uno studio pubblicato sul Journal of Neurophysiology, un gruppo di ricercatori dell’Università di Montreal e del Centro Mente/Cervello (CIMeC) dell’Università degli Studi di Trento ha potuto analizzare il recupero di uno di questi rari pazienti, scoprendo che la riorganizzazione funzionale che ha luogo nel cervello di chi per un lungo periodo ha vissuto una deprivazione sensoriale, e che aiuta a compensare almeno in parte la perdita della vista potenziando gli altri sensi, potrebbe però impedire un completo recupero della visione.

    “Abbiamo avuto la fortuna di studiare un caso raro di una paziente, ipovedente dalla nascita, che in età adulta ha riacquistato la visione in modo repentino in seguito ad un intervento di impianto di una cheratoprotesi, ovvero un trapianto di cornea artificiale, una Keratoprothesis Boston, nell’occhio destro”, spiega Giulia Dormal dell’Università di Montreal, coordinatrice dello studio. “Da una parte, i nostri risultati indicano che la corteccia visiva mantiene un certo grado di plasticità – la capacità del cervello di modificarsi in funzione dell’esperienza – anche in una persona adulta ipovedente dall’infanzia. Dall’altra, abbiamo scoperto che, anche a distanza di molti mesi dall’intervento, la corteccia visiva non recupera totalmente il suo normale funzionamento”.

    Proprio l’adattabilità del cervello dunque potrebbe rappresentare un problema per il recupero della vista. È noto infatti che in caso di cecità la corteccia occipitale, la parte del cervello che normalmente elabora le informazioni provenienti dagli occhi, diventa sensibile anche agli stimoli provenienti da altri organi sensoriali, come l’udito e il tatto, compensando così la perdita della vista. “Questa riorganizzazione cerebrale, pur importantissima, rappresenta tuttavia una sfida al recupero della vista da parte di chi subisce un trapianto, perché la corteccia – dopo essere andata incontro a riorganizzazione – potrebbe non esser più in grado di elaborare gli stimoli visivi”, chiarisce Dormal.

    Per capire l’importanza di questo fenomeno, i ricercatori hanno sottoposto la paziente, una donna canadese di 50 anni, ad un serie di test, comportamentali e neurofisiologici. Prima e dopo l’intervento, hanno monitorare i cambiamenti della vista e dell’anatomia cerebrale, così come la risposta cerebrale a stimoli di natura visiva e sonora. Per questo, i ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale per registrare le attivazioni cerebrali della donna nel corso dell’esecuzione di alcuni compiti visivi e uditivi e le hanno poi confrontate con quelle di individui vedenti e di ciechi dalla nascita, impegnati negli stessi compiti.

    “Abbiamo visto che, prima dell’intervento, presentava una riorganizzazione strutturale e funzionale delle aree occipitali tipica di una deprivazione sensoriale di lunga durata. Quindi, abbiamo dimostrato la possibilità di un parziale ripristino delle precedenti funzioni, in seguito all’acquisizione della vista in età adulta”, aggiunge Olivier Collignon, neuroscienziato del CIMeC responsabile della ricerca. “Dati gli importanti avanzamenti recenti nelle soluzioni tecnologiche che consentono il recupero della vista, questi risultati hanno importanti implicazioni cliniche nel predire l’eventuale esito di un impianto nei pazienti candidati all’intervento”.

    Lo studio suggerisce che la chirurgia oculare può quindi avere dei risultati positivi, anche negli adulti con severa incapacità visiva dall’infanzia, ma con un importante avvertimento: “Il recupero osservato nella corteccia visiva, in termini di una minor risposta agli stimoli uditivi e un aumento graduale della risposta a quelli visivi e della densità della materia grigia, non è completo”, spiega Dormal. “Infatti, a sette mesi di distanza dall’intervento chirurgico, alcune aree continuano a rispondere debolmente agli stimoli uditivi, pur reagendo simultaneamente a input di natura visiva. E proprio in tale sovrapposizione potrebbe risiedere la ragione del fatto che alcuni aspetti della visione, nonostante i miglioramenti graduali, si mantengano al di sotto della norma anche dopo sette mesi dall’impianto”.

    Duplici le implicazioni cliniche: “I risultati del nostro studio aprono la strada ad un uso clinico sistematico della risonanza magnetica prechirurgica come strumento di prognosi dell’efficacia dell’impianto. Inoltre, aprono la strada anche allo sviluppo di programmi di riabilitazione specifici in seguito ad interventi di recupero della vista”, conclude Collignon.

    Riferimenti: Tracking the evolution of crossmodal plasticity and visual functions before and after sight-restoration; Giulia Dormal, Olivier Collignon et al.; Journal of Neurophysiology DOI: 10.1152/jn.00420.2014

    Credits immagine: via Pixabay

    Se avete ricerche e studi da segnalare alla redazione per la rubrica “Ricerca d’Italia” scrivete a redazione@galileonet.it ​

    LASCIA UN COMMENTO

    Please enter your comment!
    Please enter your name here