La morte negata

Quanti sono i civili morti in Iraq dall’inizio della guerra? Nessuno lo sa: indicare una cifra esatta è praticamente impossibile. E’ l’accusa che un gruppo di 24 epidemiologi ed esperti di sanità pubblica di Stati Uniti, Australia, Spagna, Canada e Italia ha rivolto al governo inglese e a quello americano in un documento pubblicato sul British Medical Journal, nel quale si chiede a gran voce l’avvio di indagini autonome sul numero e sulle cause delle morti tra i civili. Secondo “Iraq Body Count”, database non governativo che riporta tutte le ultime notizie sul conflitto, il loro numero sarebbe infatti compreso tra 17 mila e 20 mila dall’inizio delle ostilità nel marzo 2003. Di contro, invece, il Ministero della Sanità iracheno sostiene che i morti siano stati circa 5 mila e i feriti 19 mila da aprile 2004 a ottobre dello stesso anno. Una cifra troppo bassa per essere veritiera, come sostengono gli esperti, secondo cui è “irresponsabile” basarsi solo su questi dati per fornire delle stime ufficiali. Le cifre irachene, tra l’altro, oltre a non tenere conto della mortalità nei primi dodici mesi dell’invasione americana, includono solo le vittime di morte violenta e non fanno cenno di decessi causati indirettamente dalla guerra. Il problema era già venuto alla ribalta nell’ottobre scorso, quando The Lancet aveva pubblicato uno studio condotto su un campione rappresentativo di famiglie irachene. Attraverso le risposte a un questionario, i ricercatori avevano calcolato il numero dei decessi per famiglia rapportandolo poi a tutta la popolazione irachena. Risultato: quasi 100 mila civili morti dall’inizio della guerra. Ma il governo inglese aveva liquidato lo studio considerandolo poco scientifico. “Gli autori avevano avvertito che, dato il metodo scelto per l’indagine e la difficoltà della situazione, la cifra riportata nello studio poteva contenere un certo margine di errore”, spiega Rodolfo Saracci, direttore di ricerca in Epidemiologia presso il Cnr di Roma e tra i firmatari del documento pubblicato sul British Medical Journal. “Essendo comunque un numero molto superiore a quello fornito dal Ministero della Sanità irachena, si richiedeva una verifica che chiarisse ogni dubbio”. Nessuna nuova inchiesta, però, venne avviata. Da qui l’esigenza, dicono ora gli esperti, di rilanciare la questione perché “conoscere il numero e le cause dei decessi o dei ferimenti è un imperativo umanitario e un indicatore di democrazia che può contribuire a evitare altre morti”. A generare discrepanza tra le cifre ufficiali e quelle che provengono dalle organizzazioni non governative sono anche i criteri utilizzati per il conteggio delle vittime. “Il Ministero iracheno ha sommato i dati ospedalieri e quelli degli obitori”, continua Saracci, “ma non ha conteggiato le perdite da marzo 2003 a marzo 2004, né coloro che non sono morti nelle strutture pubbliche o sono stati seppelliti senza passare dall’obitorio. Non solo: mancano in questo numero anche tutti quei civili morti per problemi correlati alla guerra, come la carenza di cure mediche, la malnutrizione, la mancanza di farmaci”. Per conoscere le cifre reali del conflitto, dicono gli esperti firmatari del documento, bisognerebbe che il governo inglese e quello americano affidassero un’indagine a degli esperti, a cui garantire un lavoro in assoluta indipendenza. Ma la risposta degli esecutivi chiamati in causa è stata secca: i dati del Ministero iracheno sono i più attendibili, tanto più che al momento, date le condizioni del paese, non è praticabile l’ipotesi di svolgere un’analisi precisa. In realtà, spiega una portavoce della campagna “Count the Casualties” avviata da Iraq Body Count, “avviare un’indagine più accurata, anche attraverso interviste tra la popolazione, sarebbe possibile, come hanno dimostrato quelle finora svolte con successo in molte zone di conflitto, come la Repubblica Democratica del Congo, il Kosovo e il Darfur”. Ma il governo britannico si è tirato indietro, ed ha declinato ogni responsabilità circa la contabilità dei morti iracheni.

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