Gli scandali della nuova filosofia: il Galileo eretico

“In materia d’introdur novità. E chi dubita che la nuova introduzione, del voler che gl’intelletti creati liberi da Dio si facciano schiavi dell’altrui volontà, non sia per partorire scandali gravissimi? E che il volere che altri neghi i propri sensi e gli posponga all’arbitrio di altri. E che l’ammettere che persone ignorantissime d’una scienza o arte abbiano ad esser giudici sopra gl’intelligenti, e per l’autorità concedutagli sian potenti a volgergli a modo loro”.
(Frammenti attinenti al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo)

Il testo scelto come tema di questa lettura è un frammento che si conserva autografo “nelle carte premesse all’esemplare del Dialogo che è posseduto dalla biblioteca del Seminario di Padova” (cod. 352), e che proprio per queste note di Galileo è ben conosciuto dagli studiosi e dagli editori dell’opera galileiana.Già infatti se ne valse l’abate Giuseppe Toaldo per l’edizione padovana del 1744, finché il Favaro pubblicò per la prima volta tutti i frammenti nel 1879.

La scelta è caduta su queste note proprio per il loro carattere quasi epigrafico, e per l’energia risentita che le caratterizza: per quegli “scandali gravissimi” suscitati da coloro che gridano allo scandalo per le verità rigorose proclamate da “intelletti creati liberi” da Dio, ma combattuti da “persone ignorantissime d’ogni scienza o arte” che si arrogano”l’autorità” di farli schiavi costringendoli addirittura a negare “i propri sensi” e a “posporli all’arbitrio di altri”.

Non sono, è ovvio, battute peregrine in Galileo, anche se nelle note rapide come nei superlativi assoluti cosi irosi (scandali gravissimi,persone ignorantissime) sembra esplodere una rivolta a stento e troppo a lungo contenuta. Non a caso un singolare filosofo della scienza, in unsuo scritto uscito postumo nel 1992 nel quale immagina di riprodurre I colloqui di Urbano VIII e Galileo Galilei, mette in bocca a Galileo proprio questo testo, a cui il papa risponde: “Non vedi come il tuo discorso scientifico si fa ora politico?”

La scelta di questo luogo e, quindi, di altri che la sua discussione chiama in causa, di proposito si collega all’esigenza di un esame pacato di quello che consapevolmente Galileo intese fare: del suo programma di ricerca e dell’ambito in cui ritenne che a uno scienziato fosse lecito pronunciars iliberamente in base alle regole razionali universalmente valide nei campi da lui esplorati: astronomia, fisica, filosofia. Ai problemi dei confini delle discipline, infatti, Galileo fu sempre molto sensibile, reclamando per sé, oltre la denominazione di matematico, quella di filosofo,come risulta della ben nota lettera a Belisario Vinta da Padova, del 7 maggio 1610: “quanto al titolo […] del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di Matematico […] quello di Filosofo, professando io di havere studiato più anni in Filosofia, che mesi in Matematica pura”.L’uscita di Galileo non va sottovalutata. Se era vero, come si legge in un documento ufficiale del 26 settembre 1592, che “le Matematiche”erano considerate in Padova “lettura […] di molta importanzia perservire alle scienzie principali”, e se si poteva dire senza troppa esagerazione che Galileo era “il principal di questa professione”,è tuttavia degno di nota che dopo l’esperienza padovana, ossia dopo”i diciotto migliori anni” della sua vita, reclamasse con forza,accanto a quello di matematico, il titolo ufficiale di ‘filosofo’: un titolo,si badi, che come l’esperienza gli insegnava, era abbastanza rischioso.

In un saggio recentissimo, uscito alla fine del 1992, di singolare importanzaanche se ben poco se ne è parlato, un professore padovano che avevagià dato rilevanti contributi alla nostra conoscenza di Pietro Pomponazzi,ha pubblicato i documenti di una denuncia finora sconosciuta di Galileoal Sant’Uffizio di Padova, dei primi mesi del 1704. Nella denuncia Galileoè “imputato di haver ragionato che le stelle e gli influssicelesti necessitino, et di vivere hereticalmente imputazione di molta consideratione”.Con il matematico Galilei viene denunciato, e non per la prima volta, ilfilosofo Cremonini, “imputato di haver ragionato contra l’incarnationedel Salvator Nostro Iesu Christo”, dopo essere stato già “ammonitoin proposito del leggere che l’anima fosse mortale”.
I documenti ora pubblicati da Antonino Poppi, mentre ci fanno apprezzarela fermezza degli interventi del governo veneziano contro “denuncieche procedono da animi mal affetti et da persone interessate”, “leggerissimeet di nessun effetto quelle del Galilei”, ci fanno anche ammirare ilvigore del Cremonini, che se non fu filosofo grande, fu coraggioso e dignitosodifensore della libertà del filosofare contro le insinuazioni deiGesuiti e gli intrighi degli ambienti clericali, appoggiato del resto senzariserve dalla Signoria veneziana.

L’episodio, finora neppur sospettato, è tuttavia da sottolineare perché mostra intorno a Galileo un’atmosfera di insinuazioni generiche(“vivere hereticalmente”, non andare a messa ecc.), di pettegolezzi e ostilità da parte di ambienti religiosi. Né può sottovalutarsi quella così sintomatica collocazione sua accanto a Cremonini ben noto, e già perseguitato per la eterodossia del suo insegnamento,aristotelico sì, ma miscredente. L’avvicinamento, si badi, non implica affatto una qualsiasi vicinanza reale di Galileo sul piano filosofico, chepure qualcuno ha ipotizzato a torto, e che non ci fu mai. Galileo, che sappiamo lontanissimo dalle impostazioni del Cremonini con cui pure ebbe rapporti amichevoli, è tuttavia coinvolto per la sua stessa “matematica”in un clima di sospetti di proposito alimentati da ambienti religiosi genericamente ostili a ogni libera ricerca in qualsiasi modo innovatrice. Di qui le accuse,”leggerissime et di nessun momento”, di fare – come molti facevano- oroscopi a pagamento (“io gli ho veduto in camera sua fare diverse natività per diverse persone” – come depose contro di lui difronte al vicario del Sant’Uffizio, il 21 aprile 1604, messer Silvestro Pagnoni).

D’altra parte, a ricostruire un’atmosfera, neppure si dovrebbe dimenticare,come generalmente si fa, la presenza a Padova, proprio nel ‘92, di GiordanoBruno, probabilmente occupato a insegnare in privato e a porre la sua candidaturaalla cattedra di matematica vacante da più di tre anni, e che saràassegnata appunto a Galileo. Proprio a quel fine, e pensando a quella cattedra,Bruno compose allora lì, a Padova le Praelectiones geomericaee l’Ars deformationum, che rimaste sconosciute e inedite solo nel1964 Giovanni Aquilecchia pubblicò. Così negli anni felicidel soggiorno padovano di Galileo si consumava, per anni e anni, prima aVenezia e poi a Roma, la tragedia bruniana, di quel Bruno che proprio Keplero rimprovererà ripetutamente a Galileo di non aver menzionato fra i suoi precursori: Bruno che con tanta veemenza aveva rifiutato la cauta apertura di Osiander al De revolutionibus di Copernico, apertura che avrebbe potuto evitare uno scontro drammatico, fatale al progresso del sapere. Comunque,l’episodio del 1604, finora ignorato, restituisce al contesto in cui si muoveranno le scoperte galileiane l’ombra del sospetto e la minaccia dell’intolleranza,che dopo avere a lungo strisciato esploderanno nel ‘16 -per trionfare drammaticamente nel ‘32.

Nel 1604, il 5 maggio, il governo veneto comunicava ai Rettori dello Studio di Padova di avere deliberato con 15 voti favorevoli, nessun contrario e 5 fra astenuti e nulli, che non si procedesse, anche per “le divisioni e risse piene di confusioni et de importanti disordini che potriano nascere tra scolari per questa causa”, tanto più che le accuse al Galilei erano palesemente di nessun momento. Galileo poté così continuare in quel medesimo 1604 a meditare e a discutere sul moto con l’amico Paolo Sarpi, e a lavorare sui fondamenti delle nuove scienze. Quando, il 7 maggio del 1610, alla vigilia del ritorno in Toscana scriverà la già citata lettera al Vinta, le ricerche e i lavori progettati e avviati glisi affolleranno alla mente: “Io de i secreti particolari, tanto diutile quanto di curiosità e admiratione, ne ho tanta copia, che la sola troppa abbondanza mi nuoce”.

Era ormai al centro dell’attenzione dei dotti astronomi e “filosofi”scossi tutti profondamente dalla pubblicazione a Venezia nel ‘10 del SidereusNuncius “magna longeque admirabilia pandens”. Il 12 febbraio1611 scriverà da Firenze all’amico Sarpi: “Quanto alle occupazionidella mente, non mi è mancato che fare, a difendermi con la linguae con la penna da infiniti contraddittori e oppositori contro alle mie osservazioni;sebbene non me la sono ne anco presa con quell’ardore che pareva a moltiche contro all’ardire degli opponenti fusse bisognato, essendochéero certo che il tempo averebbe chiarite tutte le partite, siccome in granparte è sin qui succeduto. Poiché i matematici di maggiorgrido di diversi paesi, e di Roma in particolare, dopo essersi risi, edin scrittura ed in voce, per lungo tempo e in tutte le occasioni e in tuttii luoghi, delle cose da me scritte, ed in particolare intorno alla lunaed ai Pianeti Medicei, finalmente, forzati dalla verità, mi hannospontaneamente scritto, confessando ed ammettendo il tutto; talchéal presente non provo altri contrari che i Peripatetici, più parzialidi Aristotele che egli medesimo non sarebbe, e sopra glí altri quellidi Padova, sopra i quali io veramente non spero vittoria”.

D’altra parte fra coloro che più sottolinearono il carattere rivoluzionario dell’opera di Galileo, e la sua decisiva importanza scientifica, ci fu Keplero,proprio quel Keplero che tenne a sottolineare il debito che Galileo aveva nei confronti così di Copernico come di Bruno e dello stesso Keplero.Senza dubbio il confronto fra Keplero e Galileo per un verso, e per un altro fra Galileo e Bruno, fu di grande significato e di profonda, anche se a volte sottile, risonanza, nella drammatica vicenda di quei decenni. Come è noto, Keplero ha insistito più volte, con rammarico, sulsilenzio di Galileo. Nella Dissertatio cum Nuncio Sidereo, il nome di Bruno in poche pagine compare una diecina di volte, anche a proposito di temi che più turbano Keplero: “ex recentioribus Bruno etBrutio [ossia Edmondo Bruce], tuo, Galilaee, et meo amico, visum infinito salios mundos (vel, ut Brunus, terras) huius nostri similes esse”. Il richiamo di Keplero a Bruno nella Dissertatio fa addirittura l’impressione di essere voluto, di essere fatto di proposito, tanta è l’insistenza sul nome di un uomo la cui interminabile tragica vicenda era di ieri, edera carica di significato, e di un significato che poteva apparire sinistro.Per questo, uno dei difensori di Galileo e del Messaggero celestecome Giovanni Wodderborn si affretterà a dire che è assurdo pensare a un debito di Galileo nei confronti di Bruno. La aniles fabulae di Bruno, tantum Galilaeum ad novos planetas detegendos iuvare poterant,quantum lepida quorundam historia, quod coelum sit lac, et Luna coagulumeius.

Per contro andrebbe riletta per intero tutta la vivacissima lettera cheMartino Hasdale (il tedesco Martin Hastal, della corte di Rodolfo II) scrisse a Galileo da Praga il 15 aprile 1610: “io questa mattina ho avuto occasione di fare amicitia stretta con il Keplero havendo egli et io mangiato con l’Ambasciatore di Sassonia; et domattina siamo invitati da quel di Toscana,dove io vado familiarmente di continuo, essendo quel Signor mio padrone vecchio. Hora gli ho domandato quello che gli pare di quel libro et di V.S.Mi ha risposto che sono molti anni che ha prattica con V.S. per via di lettere,et che realmente non conosce maggiore uomo di V.S. in questa professione,ne manco ha conosciuto; e che con tutto che il Tichone fosse tenuto pergrandissimo, nondimeno che V.S. l’avanzava di gran lunga. Quanto poi a questolibro [il Sidereus Nuncius], dice che veramente ella ha mostratala divinità del suo ingegno; però che ella viene hevere datoqualche occasione non solo alla natione Todesca, ma anco alla propria non havendo fattone mentione alcuna di quegli autori che le hanno accennato e porta occasione di investigare quello che hora ha truovato nominando fra questi Giordano Bruno per Italiano, et il Copernico et sé medesimo,professando di havere accennato simili cose (pero’ senza pruova, come V.S.,et senza dimostrazioni)”.

Non paia eccessivo o fuori luogo questo insistente richiamo a Bruno, e a Keplero che a Bruno si rifaceva con tanto calore. L’ombra di Bruno nella disputa copernicana era presente sempre, anche quando quel tragico nome non veniva fatto. A Bruno si pensava, certo, per la difesa appassionata del copernicanesimo come fondamento per una visione nuova del mondo infinito,ma a lui si pensava anche per il rifiuto deciso e duro di presentare l’eliocentrismo come un insieme di pure ipotesi matematiche, senza un necessario legame con la realtà. Bruno non aveva avuto dubbi: la famosa avvertenza anonima che va innanzi al De revolutionibus non solo non era di Copernico,ma non ne rispecchiava in alcun modo il pensiero. L’autore di essa, Andrea Osiander, era solo un “asino ignorante e presuntuoso”; “se alcuno prenderà per vera” quella premessa “uscirà più stolto da questa disciplina”, concludeva Bruno ne La cena delle ceneri. Il rifiuto di quella prudente premessa era decisivo,anche se poi le conseguenze si sarebbero sviluppate in modo affatto diverso,e su piani diversi, in Bruno e in Galileo: nella filosofia della natura del primo e nella scienza fisica e nell’astronomia del secondo. In Italia,comunque, già tra il 1546 e il ‘47 un domenicano di San Marco, ben noto per la sua dottrina astronomica, Giovanni Maria Tolosani, aveva compostoun opuscolo anticopernicano in cui, fra l’altro, l’autore è perfettamente consapevole che l’avvertenza non è del Copernico, e che non si tratta affatto di una mera ipotesi matematica.

Lo scritto del Tolosani, che era stato conosciuto subito negli ambienti romani, era nella biblioteca di San Marco a Firenze, dove sappiamo che lo consultò e lo studiò a lungo un altro domenicano, Tommaso Caccini, che, dopo aver cominciato a predicare contro Galileo già nel 1611 a Bologna, condusse a Firenze una vera e propria campagna contro il copernicanesimo e soprattutto contro Galileo, fino all’attacco in Santa Maria Novella, la quarta domenica dell’avvento del 1614, allorché gridò, con scoperta allusione: “Viri Galilaei, quid statis aspicientes in coelum?”, suscitando scandalo e disgusto fra i suoi stessi confratelli. Scriveva Luigi Maraffi, Predicatore Generale, da Roma a Galileo, il 10 gennaio 1615: “Dello scandalo […]n’ho sentito infinito disgusto, et tanto più che l’autore n’è stato un frate della mia religione, perché per mia disgrattia stoa parte di tutte le bestialità che possono fare et che fanno trenta o quarantamila frati”. Ma forse del debito del Caccini verso il Tolosani,e del peso dello scritto del Tolosani nella polemica anticopernicana inItalia, converrebbe dire di più, visto che il Caccini annotòsul codice del Tolosani, oggi alla Nazionale di Firenze (Conv. sopp. J I25 San Marco), di essersene servito, mentre il Tolosani accusava giàduramente Copernico, e non solo di ignorare la fisica e la dialettica, masoprattutto di sostenere tesi scandalose “ad cuius vitandum scandalumhoc nostrum opusculum scripsimus” alla cui condanna si sarebbe adoperatoanche Bartolomeo Spina da Pisa, maestro del Sacro Palazzo (“cogitaverat[…] improbare librum [il De revolutionibus di Copernico]; […]morte praeventus, hoc implere non potuit”). In qualche modo il Caccinivolle essere l’erede del Tolosani e dello Spina, legando strettamente comesi capisce benissimo dagli echi nella corrispondenza galileiana l’attaccofurioso a Galileo con la lotta sistematica contro Copernico e tutta la nuova scienza, da lui identificata con la ‘matematica’. Lo scandalo, appunto,suscitato dalla predica in Santa Maria Novella nel ‘14, i cui echi si diffusero anche a Roma, è legato all’anatema contro la ‘matematica’, e contro tutti i ‘matematici’ in blocco, vilipesi con ingiurie volgari. Ancora acaldo Benedetto Castelli scriveva a Galileo da Pisa il 31 dicembre: “Quanto a quelli ladroni e vota borse etc. delli matematici, non so che dirgli […].Tra tanto mi dispiace ben sopra modo che l’ignoranza d’alcuni sia in talcolmo, che condannando scienze delle quali ne sono ignorantissimi, li diinoattributi delle quali simili scienze ne sono incapacissime, conoscendo ogni mediocre intendente che non si dà disciplina più lontana dall’interessee da’ termini empii, quanto le matematiche”.

Purtroppo Castelli non sa suggerire se non pazienza rassegnata: “Ma pazienza, poi che queste impertinenze non son le prime né l’ultime”. Ma, forse, il documento più impressionante sulla questione èil “parere” che Federico Cesi unì alla sua lettera a Galileo del 12 gennaio del ‘15 da Acquasparta, dove era trattenuto da una malattia della moglie. Si tratta di un testo molto cauto, ma insieme molto duro:cauto, a proposito dell’insidioso coivolgimento del copernicanesimo e di Copernico nella questione galileiana; duro, a proposito della tracotante e subdola asineria del ‘delinquente’, ossia del frate che ha commesso il fatto, come Cesi indica costantemente il Lorini. Il tutto unito a una disincantata e sconsolata visione della Curia romana, dove “la religione delle persone”,ossia l’ordine religioso a cui uno appartiene “giudica e dispone”;dove “il prohibire e sospendere” una dottrina o un libro “è cosa facilissima, e si fa etiam in dubio. Telesio e Patricio sono vietati: e quando l’altre non sono in pronto, questa ragione non manca mai,che ci son libri d’avanzo e troppo, che si leggano buoni e sicuri; e li contrarii ad Aristotile sono odiatissimi”. Il panorama è squallido,anche se probabilmente esatto, con quella opprimente atmosfera di decrepito aristotelismo di scuola, che certi storici odierni vanno celebrando con entusisami degni di miglior causa. Solo su un punto Cesi è sicuro:l’intransigente e generale condanna di Copernico: “Quanto all’opinionedi Copernico, Bellarmino istesso, ch’è de’ capi nelle congregatione di queste cose, m’ha detto che l’ha per heretica, e che il moto della terra,senza dubbio alcuno, è contro la Scrittura: dimodo che V.S. veda.Io sempre son stato in dubio, che consultandosi nella Congregatione dell’Indice,a tempo suo, di Copernico, lo farebbe prohibire, né giovarebbe dir altro”.

Quarto alla “sfacciataggine estrema” del “delinquente”,ossia all’attacco indiscriminato alla matematica e alla scienza (“all’haver biasmata e vittuperata generalmente la matematica e’ matematici”),anche qui Cesi non si fa illusioni, “stante le cose della Corte e maneggi simili”. Fra frati, “l’un l’altro più presto si aiuteranno et scusaranno”; diranno che si è trattato di “fervor soverchio”,e il castigo che se ne potesse cavare “sarebbe poco e segreto”.Prove scritte non ci sono, quindi bisognerebbe trovare quattro o cinque testimoni “non scienziati, che provassero che questo tale alla presenza loro ha detto che la matematica è arte diabolica e che li matematici, come authori di tutte l’heresie, doverebbero essere scacciati da tutti listati; e di questa solo valersi, non entrando punto nelle cose contro Copernico dette, in niun modo”. Con tutto questo non è molta la fiduciadi Cesi: “facilmente la parte del delinquente addurà haver parlato contro Copernico, e con questo cercarà scusarsi”, e dato il clima e l’ambiente ci riuscirà.

Naturalmente Cesi non disperava, e non abbandonava la lotta, ma la vedevalunga e difficile, e da condursi con prudente diplomazia. Il 7 marzo, da Roma, raccomandava a Galileo: “li lasci gracchiare”. Contemporaneamente gli faceva avere, per corriere, “un libro uscito hora a punto […]che difende l’opinion di Copernico salvando tutti luoghi della Scrittura;opera che certo non poteva uscir fuori in miglior tempo, se peròl’accrescer rabbia agli avversari non sia per nocere”. Si trattavadella Lettera del Carmelita calabrese Paolo Antonio Foscarini (ma in realtà si chiamava Scarini, e con i Foscarini non aveva ache fare), “sopra l’opinione de’ Pittagorici , e del Copernico, della mobilità della Terra e stabilità del Sole, e del nuovo Pittagorico Sistema del Mondo” (In Napoli, Per Lazaro Scoriggio, 1615), opera che,come si sa fu proibita, e che nocque invece di giovare.

In realtà, e Galileo questo l’aveva inteso presto e bene, il copernicanesimosi era inserito come momento decisivo del rinnovamento culturale del Rinascimento,e si collocava nel moto di revisione che aveva investito, sul piano filosoficoe scientifico, le sistemazioni aristoteliche della Scolastica, mentre fiorivano la ripresa platonica e neoplatonica., il neopitagoreismo e Democrito, Epicuroe la scepsi, una radicale trasformazione dell’aristotelismo, e, fra filosofiae matematica, lo studio di Archimede non a caso ribattezzato platonico.Certo Galileo non fu platonico, ma neppure aristotelico, anzi nemico costante di un certo peripatetismo di scuola. Fu tipico erede del mondo del Rinascimento,anche se si collocò fuori da certi suoi conflitti, oltre certe sue tensioni, lontano da chi, come Bruno, cercava di sfruttare Cusano da un lato e Copernico dall’altro ai fini di una originale concezione del mondo,uno insieme e infinito, al di là della matematica, verso i rapimenti della mistica.

No: Galileo resta fedele alla matematica, a una scienza, cioè, checon metodi rigorosamente razionali ci apre la via alla concezione del cosmo e all’analisi dell’esperienza, lasciando da parte metafisica e teologia.Galileo resta fedele a quanto scrive nella notissima pagina del Saggiatore:filosofare non è “appoggiarsi all’opinione di qualche celebre autore, sì che la mente nostra quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile e infeconda”; la filosofia non è “un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando Furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. […] La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (iodico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto.Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli,cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. Sono parole famose in cui forse non è fuori luogo cogliere ancora l’eco lontana dello sdegno per le ingiurie contro i matematici lanciate dal pulpito di Santa Maria Novella. La durezza di Galileo, la sua intransigenza, lo stesso sdegno, sono l’altra faccia di un programma di rigore razionale coerente, di fedeltà a un sapere fatto di esperienza e ragione, che gli rende pressoché incomprensibile la pretesa di interferire con quelli che gli appaiono i punti indiscutibili di forza dell’esperienza umana: la matematica e le sensate esperienze.

Per tutto questo, e non solo per motivi di prudenza e di orgoglio, dei filosofie della filosofia, in genere preferisce tacere: come pure della teologia e dei teologi, mentre è pieno di comprensione per l’esperienza religiosa autentica. La retorica, certo, non ama, anche se salva i poeti. Pensandoa certe pagine di Copernico, e al Sole lampada dell’universo, osserva: “di grazia, non intrecciamo questi fioretti rettorici con la saldezza delle dimostrazioni, e lasciamoli a gli oratori o più tosto a i poeti”. Non è tenero neppure con la logica, aristotelica e no.”Mille Aristoteli resterebbero a piede”; “il dimostrare” si apprende”dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici”. Come dirà nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, “con gran ragione Platone voleva i suoi scolari prima ben fondati nelle matematiche”, perché gli sembrava che “la logica insegni a conoscere se i discorsi e le dimostrazioni già fatte e trovate procedano concludentemente”,ma non che “ella insegni a trovare i discorsi e le dimostrazioni concludenti”.In un passo ben noto del Dialogo aveva scritto che delle “scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, […] l’ intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni […] di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano […] la cognizione agguaglia la divina nella certezza obiettiva, perché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore”.

Sono, tutte queste, proposizioni di grande rilievo teorico, ma che Galileo né articola sistematicamente, né svolge, come evita, in sede astronomica, di affrontare i possibili sviluppi delle sue scoperte. Con molta penetrazione, già nel 1957, Lodovico Geymonat, di fronte alle fondamentali questioni filosofiche del Saggiatore, sottolineava che Galileo non le aveva né articolate né svolte sul piano della filosofia. L’osservazione può estendersi a tutta l’opera sua. Mentre egli ebbe fortissimo il senso della crisi delle posizioni filosofiche tradizionali,e rifiutò sempre con una forza tinta di disprezzo il vecchio peripatetismo di scuola, mentre fu consapevole che la sua scienza apriva una via nuova al sapere, volle anche rimanere rigorosamente nei limiti delle ‘matematiche’senza tentare le vie filosofiche, che pure gli si aprivano dinanzi, quasi si rendesse conto oscuramente della grande originalità ma anche delle straordinarie difficoltà della strada da lui aperta.

Solo, forse, il convergere dei conservatori aristotelici con i teologi cattolici,lo indusse a affrontare esplicitamente questioni che chiamavano in causa posizioni teoriche generali. Sono le notissime le lettere a Benedetto Castelli,a Piero Dini, alla Granduchessa Madre Cristina di Lorena, lettere che certo non è il caso di riprendere qui in tutta la complessità della loro problematica, con la forte sottolineatura della autonomia del campo della scienza dagli insegnamenti morali e dalle questioni religiose della Scrittura: campi totalmente diversi fra cui i conflitti sono impossibili sempre che la ricerca scientifica sia rigorosa e l’insegnamento morale e religioso non travalichi i suoi scopi e confini, e soprattutto non scambi libertà lessicali, formulazioni metaforiche e artifizi retorici delle Scritture con proposizioni teoriche rigorose.

Se mai, costituisce per certi aspetti un caso a sé la lettera al Dini del 23 marzo 1614, dove, di fronte a certe battute copernicane, Galileo sembra aprire la strada a singolari digressioni sul Sole e la luce, che sembrano denunciare la presenza di echi ficiniani e platonizzanti, a cominciare dalle citazioni del Salmo XVIII e dello Pseudo Dionigi. Al fine commento che della lettera ha fatto anni fa Paolo Rossi mi propongo anzi di aggiungere altrove alcune postille per richiamare taluni commenti al Salmo del ‘400 e del ‘500, dal Pico a Agostino Steuco da Gubbio, in particolare, oltre che sul Coeli enarrant, sull’ In sole posuit tabernaculum suum. Ora invece vorrei ricordare ancora la già citata condanna della retorica inutile, fatta sulla fine della seconda giornata del Dialogo, e proprio a proposito di Copernico che “ammira la disposizione delle parti dell’universo per avere Iddio costituita la gran lampada, che doveva rendere il sommo splendore a tutto il suo tempio, nel centro di esso, e non da una banda”.Esclama Galileo: “Ma, di grazia, non intrecciamo questi fioretti retorici con la saldezza delle dimostrazioni, e lasciamoli a gli oratori o più tosto ai poeti”. A distanza di tanti anni, sembra un ricordo e un rifiuto di quelle parti della sua lettera al Dini che tanta attenzione hanno a volte attirato.

In realtà, e proprio questo fu il grande scandalo, dopo la crisi rinascimentale che aveva investito tutto il mondo della cultura, Galileo si dette a costruire, entro i confini delle matematiche e delle sensate esperienze, la nuova scienza, nel libero uso della sola ragione: una nuova scienza da integrarsi in una nuova filosofia, diversa, anche nel metodo,da quelle dei Telesio, dei Bruno e dei Campanella, non a caso da Galileo sistematicamente ignorati.
Era un sapere profondamente quasi dolorosamente consapevole dei confini della condizione umana, ma saldamente fondato sull’uso di una libera ragione,che nel suo campo non riconosceva al di fuori di sé autorità o controlli di sorta. E proprio questo fu lo scandalo che non gli è stato mai perdonato.

Bibliografia su Galileo Galilei

1) Galileo Galilei, Opere, Edizione nazionale a cura di A.. Favero,Barbèra, 1890-1909. Ultima ristampa: 1968

2) Galileo Galilei, Lettera a Cristina di Lorena sui rapporti tra l’autoritàdella scrittura e la libertà della scienza, a cura di G. Gentile,Sansoni, 1943

3) Galileo Galilei, Scritti letterari, a cura di A. Chiari, Le Monnier,1970

4) Galileo Galilei, Sidereus Nuncius, Sansoni, 1948

5) Galileo Galilei, Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze,Boringheri, 1958

6) Galileo Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a duenuove scienze attinenti alla meccanica ed i movimenti locali, Einaudi,1990

7) Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo,Rizzoli, 1959

8) Galileo Galilei, Dialogo sui massimi sistemi, Laterza, 1963

9) Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaicoe copernicano, Einaudi, 1970

10) Galileo Galilei, Il Saggiatore, Feltrinelli, 1922

Opere su Galileo

1) A. Asor Rosa, “Galilei e la nuova scienza”, in Letteraturaitaliana Laterza, Laterza, 1974

2) A. Banfi, Galileo Galilei, Il Saggiatore, 1961

3) A. Banfi, Vita di Galileo Galilei, Feltrinelli, 1962

4) A. Battistini, Galilei, Laterza, 1989

5) E. Bellone, Il sogno di Galileo. Oggetti e immagini della ragione,Il Mulino, 1980

6) E. Cassirer, “Il platonismo di Galileo”, in: Dall’Umanesimoall’Illuminismo, La Nuova Italia, 1967

7) S. Drake, Galileo, Dall’Oglio, 1981

8) S. Drake, Galileo. Una biografia scientifica, Il Mulino, 1988

9) A. Einstein, Galileo, Libreria Editrice Vaticana, 1980

10) A. Favero, Galileo Galilei e lo studio di Padova, Antenore, 1966

11) A. Favero, Galileo Galilei. Profili, Barbèra, 1964

12) P. Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli, 1979

13) A. Forti et al., Galileo ritrovato, Franco Angeli, 1993

14) E. Garin, “Galileo e la cultura del suo tempo”, “Galileofilosofo”, in Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano,Laterza, 1965

15) “Il ‘caso’ Galileo nella storia della cultura moderna”, in:Novità celesti e crisi del sapere, Istituto e museo di storiadella scienza, Firenze, 1948

16) L. Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, 1948

17) A. Koyrè, Studi galileani, Einaudi, 1976

18) T. Kuhn, La rivoluzione copernicana, Einaudi, 1972

19) M. Segre, Nel segno di Galileo, 1993

20) W. Shea, La rivoluzione intellettuale di Galileo, Sansoni, 1974

1 commento

  1. Ottimo lavoro, grazie. Credo che la lettera di Martin Hastal sia davvero importante e rispecchi quello che pensava Kepler. Eppure non si legge spesso nei resoconti di questo momento fondamentale; è stata un’idea intelligente inserirla!

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here