Le ragioni del linguaggio

Abbandonato il sogno di cogliere le essenze, di carpire la verità segreta delle cose, la scienza tra il 500 e il 600 vuole spiegare come le cose si intrecciano, si integrano, come si combinano tra loro. Vuole raccontare le relazioni, svelare adesso non l’essenza, ma la struttura degli oggetti. E sono proprio i linguaggi matematici, dell’algebra in particolare, ad offrire le maggiori suggestioni per creare un lingua capace di descrivere queste strutture senza ambiguità e con la maggiore semplicità possibile. La nascita della scienza moderna e l’idea di un linguaggio universale sono due aspetti di un nuovo modo di osservare il mondo, l’uno all’altro profondamente connessi. Giorgio Stabile, docente di Storia della Scienza presso la facoltà di Filosofia de “La Sapienza” di Roma ha ripercorso con noi alcune tappe del significato che avevano assunto i progetti di lingue universali proprio quando i paradigmi di tutte le scienze si stavano capovolgendo, e cambiava la prospettiva da cui osservare il mondo.

Che cosa ha rappresentato nella storia della scienza l’idea della creazione di un linguaggio universale?

E’ la stessa storia della scienza che può essere considerata, in realtà, come il raggiungimento di un linguaggio universale, diverso da un linguaggio naturale. E’ la ricerca di una lingua che sia veicolo di una molteplicità di esperienze su oggetti comuni, che trasmetta una serie di messaggi e di trasformazioni intorno a questi oggetti in un modo il più coerente possibile.

Ma qual è il linguaggio più vicino a queste caratteristiche?

Uno dei linguaggi fondamentali della scienza è il linguaggio della misura, un linguaggio formalizzato. Deve avere la caratteristica dell’accordo, della pattuizione. Tra i mille significati possibili delle lingue naturali, il linguaggio che descrive la scienza è quello che sceglie, decide un significato soltanto.

Un’esigenza che esplode con la nascita della scienza moderna?

Quello della frammentazione dei linguaggi tecnici e naturali è stato uno dei grossi problemi che la scienza moderna si è trovata fin dalle proprie origini. Già Pascal sentiva il bisogno di definire il concetto di retta con la parola “linea retta”, il che vuol dire che all’epoca il termine “retta” non implicava già di per sè il concetto di linea retta. E proprio il linguaggio della geometria e della misura è stato il linguaggio tendenzialmente universale della scienza. Ha preteso, nel prelevare i termini dal linguaggio naturale, di unificarli, di standardizzarli, di renderli univoci e, soprattutto, più semplici.

Questa esigenza di un linguaggio scientifico semplice e univoco nasceva dal dovere di riprodurre una realtà di per sé chiara in segni altrettanto chiari oppure dal desiderio di dominare, almeno attraverso le parole, la complessità di una realtà ambigua e sfuggente?

Gli oggetti della scienza sono estremamente ambigui, polivalenti, e per capire questo basta pensare a un qualsiasi oggetto della fisica. Ciò che però è mutato nella scienza moderna è stata proprio l’angolazione dalla quale essa ha deciso di guardare agli oggetti. Ha scelto di considerare un oggetto non per i suoi contenuti essenziali o sostanziali, ma in termini di relazioni e di proprietà. Nella scienza moderna, le proprietà degli oggetti non corrispondevano più a proprietà intrinseche, dunque non era più necessario un linguaggio con termini che servissero ad esprimere l’interno di queste proprietà. Il linguaggio della scienza moderna doveva tendere a individuare le relazioni tra gli oggetti, senza pregiudicare tutti gli altri livelli possibili di percezione e di fruizione di questi.

Tutti questi livelli, però non potevano essere contenuti in un linguaggio definito a priori, chiuso e compiuto.

La scienza moderna ha deciso di rendere univoca la propria lettura degli oggetti, consapevole di perdere una quantità notevole di altre informazioni. Il presupposto da cui partiva, però, era che queste informazioni, rispetto all’oggetto, erano variabili e come tali non importanti. Alla scienza, invece, interessava individuare le relazioni invarianti o invariabili che, in qualche modo, consentivano di dominare gli oggetti. Uno dei linguaggi più neutri, dal punto di vista dell’espressione dei contenuti e più adatto ad esprimere la realtà in termini di relazioni era proprio il linguaggio matematico, che permetteva meglio di esprimere le relazioni. Anche gli stessi concetti della fisica sono termini naturali, ma esprimibili attraverso relazioni: la velocità, per esempio, in sè non è qualcosa, ma è un rapporto, quello tra il tempo e lo spazio.

E la biologia cosa ha suggerito?

La biologia ci dirà che la natura di un tessuto equivale alla configurazione chimico-fisica delle sue componenti, e che l’intero metabolismo non è nient’altro che quello scambio combinatorio della serie di simboli che noi gli abbiamo assegnato nelle formule chimiche: ancora un modo combinatorio di leggere.

Combinazioni che, comunque, riconducevano a un ideale di scienza che avesse una sua unità, anche allora, quando la scienza moderna nasceva.

Mai la scienza ha pensato di essere una rete chiusa, anche se uno scienziato ha sempre l’idea di raggiungere l’unità della realtà, o almeno il fondo di essa. Quello che è cambiato nella scienza moderna è che il dominio della realtà corrisponde al dominio di una regione definita. Il linguaggio della nuova scienza ha capito che non poteva ricostiture la realtà dalla A alla Z, e di queste lettere ha recuperato il valore combinatorio sulla base dell’idea che sono pochi i principi e moltissime le combinazioni. Il segreto di questa lettura sta nel dominio di pochi elementi e delle loro combinazioni. Tutto il calcolo probabilistico nasce, appunto, da questa pretesa di dominare una quantità di fenomeni imprevedibili attraverso un linguaggio semplice. Si tratta di partire da un alfabeto chiuso o limitato, con pretese aperte per quanto riguarda la descrizione potenziale.

Cartesio parla di una science universelle dalla quale dovrebbe dipendere questa lingua universale. E’ la scienza che cura la malattia del linguaggio che, in se, è solo fonte di errori?

Cartesio pensa a una mathesis universalis, a una scienza universale, che non significa la scienza della matematica come è stata matematicamente elaborata, ma una ricerca del sistema di relazioni attraverso cui si combina tutta la realtà espressa nel modo migliore dalla matematica e dalla geometria.

Una pretesa ontologica….

Ontologica e con un valore metafisico. Ci sono due concezioni, infatti, rispetto al linguaggio scientifico: una puramente strumentale, in cui della matematica si ha una concezione puramente calcolistica, e un’altra più fondazionalista, in cui la matematica ha un valore ontologico.

Ma una lingua arbitraria e convenzionale che tipo di pretese ontologiche può avanzare rispetto alla “verita” delle cose?

Rispecchia le relazioni tra le cose. La fisica moderna ha rinunciato a pretese ontologiche, a descrivere le essenze delle cose che osserva. Di un punto materiale si descrivono le sue relazioni. Mentre prima valeva il concetto di materialità o di essenza, adesso la chimica, per esempio, descrive un corpo in termini di strutture atomiche. L’interazione tra gli atomi è diventata una descrizione fisica di quell’oggetto.

La crisi non è, dunque, solo del linguaggio?

Tra il 500 e il 600 c’è una crisi dei fondamenti del linguaggio, perchè c’è una crisi dei fondamenti della percezione. Lo statuto del linguaggio entra in crisi perchè i suoi termini esprimono tutto un aspetto della realtà che non ha un fondamento oggettivo, ma soggettivo: il linguaggio qualitativo, per esempio, tutti i termini che esprimono gli odori, i sapori. E’ una critica dei fondamenti realistici del linguaggio a cui bisogna da un lato rispondere con una riforma del linguaggio e dall’altro con una revisione delle proprietà che definiscono la struttura ontologica di un oggetto. Ci saranno dunque coloro che diranno che la verità di un oggetto è nei limiti delle sue proprietà fisico-geometriche e che tutto il resto, l’aspetto fisico, organolettico, gli aspetti connotativi, semantico, se volete poetico, appartiene a una fruizione soggettiva. Ciò non significa che questo aspetto venga perso, ma che, piuttosto, venga depotenziato per quanto riguarda la sua capacità di descrizione obiettiva della realtà. Si apre dunque la biforcazione tra linguaggio poetico e linguaggio scientifico, come se il primo fosse fondato su elementi di senso che non carpiscono la realtà.

Una contrapposizione rivista ampiamente nella cultura contemporanea.

Sicuramente si trattava di una concezione, in fondo, sbagliata. Basti pensare anche alle riflessioni contemporanee sulle analogie tra arte e scienza o tra linguaggio scientifico e linguaggio artistico. Non è detto che due mondi, così apparentemente distanti, non si rivelino poi più vicini di quanto si possa credere, che non siano in fondo come equazioni a risultato pari, anche se a variabili diverse. Letture a diversi livelli di una stessa realtà.

 

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