Quelle impronte sulla Terra

Fino ad oggi, le analisi attorno all’insostenibile impatto dello sviluppo umano sulla Terra partivano dal concetto di carrying capacity, qual è la “capacità di carico”, cioè quanta popolazione può essere “sostenuta” da un certo habitat, un territorio, una nazione, un continente, il pianeta intero? Ora un nuovo metodo di analisi si affaccia, rovesciando i termini della questione: non parte più dal territorio, ma ci arriva stimando il consumo di risorse e la richiesta di assimilazione di rifiuti da parte di una determinata popolazione umana, o di una certa economia. Si tratta dell’analisi della “impronta ecologica”: quanto larga è questa impronta sulla Terra, o meglio quale porzione dell’ecosistema planetario (terreno e marino) viene utilizzato per produrre il cibo, l’energia, il legname, i materiali e per smaltire i rifiuti di un italiano o di un cinese?

Questo concetto – insegnato da vent’anni nei corsi di pianificazione ecologica da William Rees – è stato sviluppato a partire dal 1990 da Mathis Wackernagel e altri studenti che lavorano con Rees nella Healthy and Substainable Communities Task Force della Università della Columbia Britannica. Un lavoro che si era inizialmente concretizzato nel manuale How Big is Our Ecological Footprint? e poi, agli inizi del 1996, in Our Ecological Footprint. Reducing Human Impact on the Earth (tradotto in Italia, a cura di Gianfranco Bologna e Paolo Lombardi del Wwf, per le Edizioni Ambiente con il titolo: L’impronta ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra): “Con questo strumento”, scrivono Wackernagel e Rees, “cerchiamo di dare risposta ad alcune domande tipiche, quali ad esempio: quanto la popolazione considerata dipende dall’importazione di risorse da “altrove” e dalla capacità di assorbimento di rifiuti dei “sistemi ecologici comuni”? Nel prossimo secolo la produttività della natura sarà sufficiente per soddisfare le crescenti aspettative materiali di una popolazione umana in aumento?”

Ogni anno, l’attività economica misurata dal Prodotto interno lordo cresce del 4 per cento a livello mondiale, che corrisponde a un tempo di raddoppio di circa 18 anni. Uno dei fattori che causano l’espansione è la crescita della popolazione: nel 1950 c’erano 2,5 miliardi di persone, oggi sono 5,8, saranno 10 miliardi prima della metà del prossimo secolo. Ma ancora più significativa, dal punto di vista ecologico, è la crescita del consumo pro capite di energia che, negli ultimi 40 anni, è aumentato più velocemente della stessa popolazione umana.

Le conseguenze sono note: ogni anno, 23 miliardi di tonnellate di anidride carbonica immesse nell’atmosfera a intensificare l’effetto serra e aumentare il pericolo dei mutamenti climatici; le foreste tropicali distrutte al ritmo di 17 milioni di ettari l’anno, quelle temperate e boreali progressivamente sostituite da piantagioni; il settanta per cento degli stock ittici sfruttati al punto da essere in declino e una crescente competizione sul mercato globale dei cereali; tre specie scomparse ogni ora, 70 al giorno: a questo ritmo, un quinto di esse a rischio animali come panda e tigri, ma soprattutto insetti e piante, spesso ancora sconosciute potrebbe non vedere l’alba del nuovo millennio.

L’inarrestabile economia mondiale sembra in rotta di collisione con una ecosfera che è immutabile. E se l’analisi dell’impronta ecologica ha un pregio, è quello di rendere visibile una constatazione banale (e in quanto tale spesso disattesa): come l’economia umana affondi le proprie radici nella natura e da essa tragga i fattori essenziali per la vita. E di raffigurare la diseguale ripartizione delle risorse tra Nord e Sud: per gli olandesi che “sfruttano” un territorio circa venti volte più grande del loro paese ci sono molte nazioni africane che “cedono” terreno per i consumi altrui. Come sta puntualmente dimostrando la vorticosa crescita economica della Cina, il modello di sviluppo occidentale non pu~ essere esteso al resto del mondo: se tutte le nazioni avessero una impronta ecologica più larga del proprio territorio probabilmente non basterebbero due o tre pianeti a sostenere i loro consumi.

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