Bikini, turismo da brivido

I quotidiani italiani, seguendo le agenzie di stampa, hanno scopiazzato un articolo del corrispondente da Tokyo del New York Times Nicholas Kristoff sull’atollo di Bikini. “Torna di moda Bikini”, dichiaravano perentoriamente i lanci delle agenzie di mercoledì 5 marzo. Peccato che le cose non stessero esattamente così: nell’articolo di Kristoff non sta scritto da nessuna parte che Bikini ”è di moda”. Al contrario, si dice che ci sono “pochi” (a few) turisti e che in futuro l’atollo “potrebbe (might) prosperare”. Che tutto ciò sia una possibilità e non una realtà emerge chiaramente dall’articolo, nel quale si precisa che il governo americano ha dichiarato l’isola “sostanzialmente” abitabile (un aggettivo poco incoraggiante) a condizione di non mangiare troppe noci di cocco, ancora contaminate dal cesio 137.

Nella fretta di celebrare il ritorno della “natura incontaminata”, il New York Times glissa sulle conseguenze di quella che lo stesso Kristoff definisce una “immensa tragedia”. Il giornalista americano, tuttavia, precisa che i test trasformarono gli abitanti in “nomadi del nucleare” e in “cavie umane”. Tutti aspetti che la stampa italiana ha generalmente ignorato, puntando magari sull’invenzione del bikini, inteso come “due pezzi”.

Il quotidiano americano non vincerà certamente un premio Pulitzer per questo articolo: per esempio non dice nulla del testo Baker, il secondo effettuato a Bikini nel luglio 1946, che affondò 83 navi nella laguna e disperse radioattività 100 volte superiore a quella prevista. Gli abitanti evacuati furono comunque esposti al fall-out radioattivo assieme ai 42 mila militari americani che assistevano all’evento. La nube non solo attraversò l’intero oceano Pacifico ma raggiunse pochi giorni dopo San Francisco e, la settimana successiva, l’Europa.

Alle “dimenticanze” del New York Times si aggiungono le imprecisioni degli articoli italiani. Si afferma, per esempio, che ci sono alcune reliquie “come un bunker atomico e una linea telefonica diretta con la Casa Bianca installata all’epoca degli esperimenti”. Il buon senso vuole che una linea telefonica presidenziale non resti inutilizzata su un isolotto radioattivo per 40 anni e infatti il testo di Kristoff precisa che “un tempo” (once) c’era un bunker con la “hot line”.

L’omissione più grave negli articoli su Bikini degli ultimi giorni, come pure in quelli dell’anno scorso quando cadeva il cinquantenario dell’invenzione del costume da bagno omonimo, riguarda il caso del Fukuryu Maru (Dragone Fortunato), il peschereccio giapponese investito il primo marzo 1954 da massicce dosi di radioattività malgrado si trovasse a ben 140 chilometri di distanza dal ground zero. Uno dei marinai morì dopo sette mesi di sofferenze e tutti gli altri furono colpiti da gravi malattie. La stessa sorte toccò ai 64 abitanti dell’atollo di Rongelap, che in seguito fu evacuato, dove vari abitanti soffrirono di cancro alla tiroide.

Le proteste internazionali indussero il governo degli Stati Uniti a compensare con 2.500 dollari la vedova del marinaio giapponese morto e, in seguito, ad affidare 2 milioni di dollari al governo di Tokyo perché indennizzasse in vario modo i pescatori danneggiati dalla radioattività nell’arcipelago delle Marshall. Tra il 1948 e il 1958 non ci furono soltanto i 23 test di Bikini ma anche i 43 del vicino atollo di Eniwetok. In molti casi la potenza della bomba era stata calcolata male, talvolta per la fretta, talvolta per il timore che l’esplosione non “impressionasse” a sufficienza il Congresso che doveva votare gli stanziamenti. Nel caso del test del primo marzo 1954 la potenza fu di 15 megatoni, circa 1000 volte l’ordigno che distrusse Hiroshima, la bomba più potente mai fatta esplodere dagli Stati Uniti.

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