Pericolo giallo per l’Amazzonia

Dopo latifondisti, incendi e imprese minerarie, ora un altro flagello incombe sull’Amazzonia: le compagnie asiatiche produttrici di legname stanno acquistando milioni di ettari di foresta. Chi potrà controllare il loro operato?

Si chiamano Gruppo Wtk, Samling, Rimbunan Hijau, Mingo, Fortune Timber. Tutte malesi eccetto l’ultima, di Taiwan. Sono compagnie che commerciano in legname tropicale. E sono sbarcate in Amazzonia. Secondo stime ufficiali dell’Ibama, l’ente federale brasiliano per la protezione ambientale, hanno acquisito il controllo su un’area di quattro milioni e mezzo di ettari di foreste. Ma il Wall Street Journal parla di acquisti o trattative per un’area complessiva, in Sudamerica, di oltre 121.000 chilometri quadrati. Come dire Olanda e Austria messe assieme. Il tutto, al prezzo modico di 6 dollari per ettaro.

Le compagnie asiatiche sono tristemente note per la loro politica che non contempla il rispetto della natura. La gestione, tutt’altro che sostenibile, delle foreste della Malesia e della Nuova Guinea ha causato devastazioni ambientali irreparabili e la distruzione del tessuto sociale di molte comunità indigene. Oggi la produzione di legname tropicale dai paesi asiatici sta calando rapidamente. Perché le leggi, un po’ più restrittive, cominciano a rendere poco conveniente la deforestazione incontrollata, e perché le foreste scarseggiano. Alle multinazionali del mogano non resta che spostare l’attenzione su nuovi territori incontaminati in Africa e America Latina.

L’Amazzonia settentrionale era già stata presa di mira nel 1996 e le compagnie si erano assicurate il controllo di vasti territori in Suriname e in Guyana. Poi, lo scorso agosto, la Wtk aveva acquisito i diritti su 300.000 ettari di foresta in una remota regione amazzonica sulle rive del fiume Juruà e aveva comprato una segheria a Manaus, capitale dello stato brasiliano di Amazonas. I primi alberi cominciavano a cadere: la segheria raddoppiava subito la produzione, arrivando a 2.000 metri cubici di legname pregiato al mese. Ritmo basso, ancora, perché le compagnie malesi sono note per saper spremere da un ettaro di foresta tropicale quasi il doppio del legname prodotto dalle colleghe brasiliane. In barba a ogni prescrizione di sostenibilità ambientale.

Il presidente dell’Ibama, Eduardo Martins, ha dichiarato che l’ente è allertato e che le compagnie verranno obbligate a rispettare i termini delle concessioni. Ma ha aggiunto: “Date le condizioni in cui operiamo, queste centinaia di milioni di dollari in Amazzonia potrebbero significare un disastro. Non vogliamo questo genere di investimenti in Brasile”.

La realtà è che l’Ibama non è in grado di effettuare controlli. Molti dipendenti dell’ente federale sono stati rimossi dall’incarico in seguito a condanne per corruzione. E in tutto il Brasile, che è esteso quanto l’Europa occidentale, esistono solo 80 ispettori ambientali. Non hanno aerei o elicotteri e a volte neppure le jeep. Come se la custodia dei Parchi d’Abruzzo e del Gran Paradiso fosse lasciata a due guardie forestali, a piedi, dislocate a Roma. Il risultato è che immense aree protette nel cuore dell’Amazzonia vengono chiuse e abbandonate a se stesse. E i satelliti ci mostrano di quanto si assottigliano anno dopo anno.

Uno studio recente, effettuato nell’area di Paragominas, una delle maggiori zone di deforestazione nello stato del Parà, ha rivelato che nessuna delle 34 ditte operanti rispettava i canoni di sostenibilità minima suggeriti dall’Organizzazione Internazionale per il Legname Tropicale (Itto). A questo si aggiunge l’iceberg sommerso della deforestazione illegale, che molte compagnie effettuano con la frode o con la violenza nei territori degli indios. E’ una scena comune, nel periodo dell’acqua alta, veder galleggiare nei fiumi decine di migliaia di metri cubi di legna abbattuta di frodo. Diretta a valle, verso le segherie.

A nulla valgono le raccomandazioni espresse a livello internazionale. Anche perché parte della responsabilità ricade proprio sui quei Paesi, anche occidentali, che dovrebbero garantirne l’applicazione. E infatti, dopo il summit mondiale per l’ambiente di Rio de Janeiro, nel 1992, il ritmo di deforestazione in Amazzonia è aumentato del 30%. E non è un caso se quasi tutto il legname prodotto è destinato all’esportazione e il denaro che ne deriva è controllato da multinazionali straniere.

Nel frattempo, il debito estero brasiliano continua ad aumentare. E le strade aperte dai deforestatori vengono rapidamente raggiunte da contadini disperati, che incendiano vaste aree di foresta in cerca di un terreno fertile che non troveranno. Gli indios vengono decimati dalle malattie portate dai deforestatori bianchi, dalle violenze, dalla perdita delle propria cultura e dei propri territori.

Dice un mito indio che gli alberi della foresta sono colonne che sostengono il cielo. Due settimane fa il Principe Filippo d’Inghilterra, presidente mondiale del Wwf, ha annunciato che fra cinquant’anni il cielo d’Amazzonia potrebbe non avere più sostegni.

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