Se il petrolio va in riserva

Ancora una ventina d’anni. Poi i rubinetti dei pozzi petroliferi dovrebbero cominciare a chiudersi e la produzione di greggio diminuire sempre più, in maniera irreversibile. Fino all’esaurimento dei giacimenti. A riproporre il problema è, dalle pagine dell’ultimo numero di Nature, Craig Bond Hatfield, geologo dell’Università di Toledo nell’Ohio (Usa). Il prodigioso sviluppo economico dell’ultimo secolo si è basato in gran parte sulla disponibilità di una risorsa come il petrolio: a buon mercato, ma non rinnovabile. Per chi si occupa di pianificazione economica ed energetica non è “di moda” fare i conti con un limite di tempo al consumo petrolifero. Ma i numeri, sostiene Hatfield, sono lì a dimostrare che i pozzi inizieranno a prosciugarsi. E le conseguenze politiche, economiche e sociali della futura situazione devono essere analizzate molto seriamente. E in fretta.

La previsione di Hatfield si basa sull’applicazione al petrolio del modello che descrive l’andamento del consumo di una risorsa non rinnovabile. Quando si è esaurita circa la metà delle riserve originarie, lo sfruttamento inizia progressivamente a calare per salvaguardare le scorte restanti. Proprio ciò che dovrebbe accadere nei prossimi 20 anni con “l’oro nero”. Ma quanto petrolio c’è ancora nel mondo? Nel 1987 i giacimenti conosciuti erano stimati attorno ai 700 miliardi di barili. Nel 1990 la stima era salita a 1000 miliardi, ma almeno una parte delle nuove riserve potrebbe avere un’origine “politica”. Infatti tra l’88 e l’89 il Venezuela, l’Iran, l’Iraq, Abu Dhabi e l’Arabia Saudita hanno dichiarato un aumento di 277 miliardi di barili nei loro giacimenti. Ma il fatto che l’annuncio arrivasse quasi simultaneamente e da paesi dell’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, ha lasciato con il sospetto che si trattasse di una mossa politica. Per esempio mirata a scoraggiare le ricerche di nuovi giacimenti in altre regioni.

Ai 1000 miliardi di barili dei giacimenti conosciuti si dovrebbero poi aggiungere i circa 550 miliardi di quelli che si pensa restino da scoprire. Insomma, a essere ottimisti, resterebbero 1550 miliardi di barili di greggio da estrarre. Considerando che fino a oggi sono stati consumati 800 miliardi di barili, l’ammontare delle riserve petrolifere della Terra all’inizio dello sfruttamento doveva essere attorno ai 2350 miliardi di barili. Questo significa che se i ritmi di estrazione rimarranno quelli odierni, 26 miliardi di barili all’anno, la fatidica soglia del consumo di metà della riserva originaria sarà raggiunta attorno al 2011. Poi la piena del “fiume nero” dovrebbe iniziare a calare.

Ma la data potrebbe essere addirittura anticipata. Anche senza la sospetta “sovrastima politica” dei paesi Opec, il petrolio ancora da scoprire potrebbe essere assai meno di quanto si spera. A partire dagli anni ‘60 le scoperte di nuovi giacimenti sono continuamente diminuite nonostante l’aumento delle introspezioni geologiche. I consumi, invece, hanno seguito l’andamento opposto. Dai 59,7 milioni di barili consumati ogni giorno nel 1985, si è passati a oltre 69 milioni nel 1995, un incremento del 16%. E la tendenza non sembra certo volersi invertire: nel 1996 il consumo è aumentato assai di più che negli ultimi 10 anni. Nei paesi in via di sviluppo la domanda di energia è esplosa dal 1985: 30% in più per l’America Latina, 40% per l’Asia e addirittura 50% per Africa.

Dunque, mentre il petrolio continua a calare, la domanda cresce. E ciò conduce dritti allo spinosissimo problema di quanto potrà innalzarsi il livello di vita nei paesi in via di sviluppo e fino a quando potrà essere mantenuto quello attuale nei paesi sviluppati. Tutto sommato, conclude Hatfield, la questione dell’impatto ambientale delle attuali politiche energetiche sarà inesorabilmente superata in un’epoca in cui la diminuzione dei consumi non sarà più una scelta ambientalista, ma una necessità.

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