Quaranta saggi in rete

Trecentoventicinque cartelle di contributi individuali, sessanta di verbali, cinquantacinque tra documento comune e relativi materiali preparatori, con in più cinquanta di relazione di sintesi e relativi materiali preparatori, venti di biografie. Per chi ama i dati quantitativi, è questa l’articolazione delle cinquecento cartelle e più che registrano il percorso fatto dalla commissione detta dei saggi da metà gennaio ai primi di maggio del 1997. Un bel malloppo di bit, o di carta, a seconda delle utenze. Detto questo, dovrei passare a considerazioni di tipo qualitativo. Ma credo proprio che non spetti a me farle, essendo stato troppo direttamente coinvolto nella faccenda. Altri hanno più titoli e maggiore serenità per farlo, contribuendo a tenere aperto un impegno di riflessione-discussione, che certo non si è concluso con l’ultima riunione dei saggi. Qualcosa penso però di poter dire, sull’oggetto, sul metodo e sulla scelta di “pubblicazione” dei lavori della commissione, senza con questo tradire a posteriori la funzione da me esercitata di coordinatore. E nemmeno la legittima esigenza di mantenere, a titolo individuale, quindi come “membro laico” della commissione, una posizione autonoma rispetto al complesso del lavoro fatto. L’oggetto, in primo luogo e, di riflesso, la natura stessa della commissione. Su questi versanti si è molto chiacchierato, dentro e fuori dei media. C’è chi ha parlato di una “commissione per la riforma della scuola”, chi l’ha designata come “la commissione dei programmi”. Confusioni terminologiche da non imputare soltanto al superficialismo di certi giornalisti. Evidentemente, su questa materia, c’è la tendenza a fare di ogni erba un fascio e mettere il cappello dell’ingegneria politica o amministrativa su ogni cosa. Niente di tutto questo. La commissione istituita dal ministro Luigi Berlinguer ha lavorato su un’altra materia, non meno scottante, ma certo meno toccata dalla nobiltà delle tradizionali elaborazioni politiche. La materia è presto detta: gli oggetti della formazione, vale a dire i saperi da considerare assolutamente irrinunciabili per ogni tipo, per ogni modello di scuola. Quindi, è stato un lavoro prospettico e, in un certo senso, disinteressato: non di appoggio al progetto di riforma di un ministro o di un governo, ma di interpretazione (il più possibile aperta) dei trend formativi del futuro. Quali cose insegnare e perché: espresso in modo brutale, è stato questo il mandato della commissione. E ciò spiega anche la natura della sua composizione, altro tema scottante, e variamente chiacchierato. Il gruppo non era rappresentativo di nulla se non di un rapporto di fiducia tra il Ministro e una quarantina di “osservatori del mondo”: accademici, ricercatori, artisti, rappresentanti del mondo della produzione, non necessariamente specialisti di questioni scolastiche. Gente capace, secondo l’opinione volutamente personale e autonoma di chi li aveva chiamati, di dare una risposta al più ingenuo degli interrogativi: perché si mandano i ragazzi a scuola, per imparare che cosa? Il metodo di lavoro. Vediamone prima i prodotti. I verbali delle cinque riunioni plenarie. E poi una gran quantità di contributi personali, alcuni in forma breve o anche brevissima, appunto, altri estesi fino a configurarsi come veri e propri contributi saggistici. Non basta. Accanto a questi blocchi di documenti, due altri: gli sforzi fatti, in fase finale, per approdare a un testo comune, sottoscrivibile da tutti. Poi, scartata questa ipotesi, non solo per ragioni contingenti, ma anche per rispettare la composizione così eterogenea della commissione, il contributo collettivo in vista della stesura della relazione di sintesi, affidata al coordinatore. Da ultimo, le brevi note di autopresentazione. Comunque li si voglia leggere, sono i risultati di un’ampia, quasi sconfinata, discussione collettiva. Materiali dialogici, più che testuali. Quindi: espressione di un’etica della fluidità più che di un’ontologia dei principi e delle norme. Specchio del desiderio comune di orientare ma nello stesso tempo mantenere aperte le scelte che altri saranno chiamati ad assumere (sul piano dell’intervento e della discussione) più che della volontà di tracciare, una volta per tutte, una cartografia del territorio epistemologico della scuola. Effetto e causa della filosofia della complessità più che di quella delle certezze.Di qui, e passo all’ultimo punto, la scelta assunta fin dall’inizio di mettere a disposizione dell’opinione pubblica non solo l’approdo ultimo dei lavori (la sintesi) ma il loro insieme. Una scelta di “trasparenza totale” che non trova eguali, per quanto so, nella travagliata storia delle commissioni ministeriali. Assunto questo orientamento, non ci si poteva esimere dall’utilizzare tutti i canali utili per essere presenti, nei tempi più rapidi e nelle forme più integrali, sulla scena della discussione pubblica: la versione in floppy disk dell’Ipertesto (il massimo dell’economia e della praticità in fatto di riproduzione) e, subito dopo, la diffusione dello stesso Ipertesto per via telematica (il massimo di rapidità e reticolarità in fatto di disseminazione), e poi le reazioni del mondo della scuola e di quello circostante sono lì a mostrare la bontà delle scelte operate.A documentazione di tutto ciò voglio dare una testimonianza personale: ventiquattr’ore dopo la consegna del fatidico dischetto al Ministro e subito dopo al Presidente Scalfaro, l’Ipertesto era in linea su due siti Internet. E a due giorni di distanza, intervenendo a un convegno sui problemi delle reti, mi sono trovato di fronte a un uditorio non più soltanto informato, ma anche documentato riguardo gli esiti del lavoro. Non pochi dei presenti avevano avuto modo di scaricare l’Ipertesto, visitarlo e navigarci dentro. Non più la corsa agli amici compiacenti o ai frequentatori del palazzo: ognuno è stato messo in grado di accedere, da casa sua, o dalla sede di lavoro, alle cinquecento cartelle della commissione.Non sono in grado di dire se siamo stati fedeli alla nostra designazione di “saggi”. Ma è difficile contestare che questa scelta di “pubblicazione” sia stata saggia. E già questo non è poco.

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