Quella X nel comportamento

C’è un gene coinvolto nelle differenze comportamentali tra maschi e femmine? E ancora: è possibile che uno stesso fattore, a seconda che venga ereditato dal padre o dalla madre, produca sull’individuo effetti fenotipici diversi? Sembrerebbe di sì. Almeno è quanto si può ipotizzare leggendo i risultati del lavoro di David Skuse, professore di Scienze del Comportamento al Child Health Institute di Londra, pubblicati questa settimana su Nature. L’equipe di Skuse ha studiato 80 ragazze dai 6 ai 25 anni affette dalla sindrome di Turner. Questa anomalia genetica, che colpisce una donna su 2.500, è dovuta all’assenza di uno dei due cromosomi X. Chi ne è affetta ha una bassa statura, uno sviluppo sessuale incompleto, una intelligenza normale ma spesso difficoltà di adattamento sociale.

I ricercatori inglesi hanno sottoposto le 80 pazienti, i loro insegnanti e le famiglie a test neuropsicologici, finalizzati ad analizzare il comportamento e a misurare il livello delle eventuali difficoltà di comunicazione delle pazienti. Risultato: le 25 ragazze che avevano ereditato il cromosoma X dal padre risultavano meglio adattate all’ambiente sociale circostante (scuola, famiglia, ecc.) rispetto alle altre 55, che portavano, nel loro genoma, il fattore X di origine materna.

Il team di Skuse, ha quindi applicato gli stessi test a individui sani, maschi e femmine con corredi cromosomici completi. In questo campione, le ragazze (con due cromosomi X, uno ereditato dal padre e l’altro dalla madre) mostravano una capacità di adattamento all’ambiente migliore delle pazienti Turner e anche dei loro coetanei maschi sani (con un solo cromosoma X, di origine necessariamente materna).

Ecco allora l’ipotesi dei ricercatori inglesi: sul cromosoma X c’è un gene – o più geni – coinvolto nel comportamento e nelle abilità cognitive. Questo gene si esprimerebbe solo sulla copia del cromosoma di origine paterna. Lo stesso gene sarebbe, invece, silente – spento, per così dire – sulla versione materna del cromosoma X. L’esistenza di questo fattore potrebbe spiegare alcune differenze comportamentali e di apprendimento tra i due sessi, e fornire una spiegazione genetica alla maggiore vulnerabilità dei maschi nei confronti di alcuni gravi disordini sociali, come l’autismo. Nel genoma maschile, infatti, c’è un’unica copia del cromosoma X e, quindi, del gene incriminato: quella inattiva, appunto. Nelle femmine, invece, sono presenti due cromosomi X. Uno di questi due è necessariamente di origine paterna, e dunque “attivo”.

Ma c’è anche un altro punto di grande interesse nel lavoro di Skuse. Si può ipotizzare anche per la specie umana quanto già riscontrato in altri mammiferi: l’esistenza, cioè, dell’imprinting genomico. Della possibilità, in altri termini, che uno stesso gene si esprima in modo diverso a seconda della sua origine: materna o paterna. I meriti di questa ricerca non finiscono qui. I risultati di Skuse e dei suoi collaboratori arricchiscono di nuovi elementi l’annoso dibattito sul ruolo della biologia nell’influenzare il dimorfismo sessuale comportamentale: le differenze psicologiche, di relazione, di abilità tra gli uomini e le donne.

Una nota finale: non c’è determinismo nella scoperta del “gene del comportamento”. La genetica non può giustificare da sola la globalità e la complessità delle differenze tra i generi. La biologia non è in grado di annullare la cultura o la storia della nostra specie o l’ambiente che circonda i singoli individui. I ricercatori inglesi – come sottolinea Skuse nell’intervista concessa a Galileo – hanno “solo” trovato un fattore che può influenzare la predisposizione a comportarsi secondo schemi differenti.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here