Il tribunale hi-tech che processa la guerra

Primo luglio. Montecitorio. Interno giorno. I microfoni e i taccuini dei media nazionali sono pronti a registrare le reazioni dei politici al dibattito nella commissione bicamerale. Nella stessa stanza, la sala stampa della Camera dei deputati, a pochi metri di distanza s’accende uno dei monitor a circuito chiuso. E’ collegato alla sala della Commissione Esteri dove, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle prospettive di riforma delle Nazioni Unite, i parlamentari ascoltano il professor Antonio Cassese, che per l’Onu presiede il Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nei territori della ex-Jugoslavia, istituito nel 1993 dal Consiglio di sicurezza dell’Onu e che ha sede all’Aja.

Davanti al presidente della Commissione Esteri Achille Occhetto, Cassese racconta tra le altre cose un episodio riferitogli dai membri di una commissione di esperti Onu che in Bosnia hanno raccolto testimonianze sugli orrori della guerra: ”…dimostrava 60 anni, ma ne aveva 40. Si trascinava sulle stampelle. Fino a poco tempo prima gestiva un bar. Era un ex-calciatore famoso in tutta la Jugoslavia. Poi un giorno nel suo bar sono arrivati i miliziani di un gruppo etnico avverso. Lo hanno riconosciuto come ex-calciatore. Lo hanno legato a un termosifone, gli hanno spezzato le gambe e poi lo hanno trascinato nella stazione di polizia con la moglie e due giovani signore. Le donne sono state violentate in sua presenza per tre giorni. Dopo di che le hanno sgozzate. Lui invece lo hanno lasciato vivo, gli hanno tolto le manette e lo hanno lasciato andare. Si è trascinato per qualche tempo finché non ha potuto raccontare tutto agli investigatori dell’Onu. Dopo aver reso questa testimonianza si è ammazzato”.

Una pausa e poi Cassese commenta: “Per le vittime di questi crimini spaventosi c’è una grandissima necessità di rendere testimonianza, di lasciare traccia di cio che hanno subito”. Dopo l’audizione Galileo gli ha fatto qualche domanda.

Sta per finire l’epoca dei tribunali “ad hoc”, come quello per i crimini di guerra commessi nella ex-Jugoslavia e per il genocidio in Ruanda. Nel giugno del prossimo anno queste strutture dovrebbero lasciare il campo ad una Corte permanente. Che cosa succederà?

“Ho il profondo timore che nasca qualcosa che poi si riveli di scarsa efficacia, che sia come il fumo negli occhi, mentre si ha bisogno di una struttura efficace e operativa. Nell’attuale progetto, che io spero il governo italiano possa contribuire a migliorare, emerge soprattutto l’idea che l’iniziativa penale non spetti al procuratore indipendente ma agli Stati. E questo perché gli Stati non si fidano di un procuratore che sfugge a qualunque controllo. Forte della sua indipendenza, potrebbe decidere di incriminare un militare italiano, russo o americano, e questo agli Stati non piace. I governi vogliono controllare l’azione penale. Ma affidare l’azione penale agli Stati può avere un effetto paralizzante. Perché mai l’Italia dovrebbe avviare un’azione penale contro la Cambogia, il Vietnam o gli Stati Uniti d’America pur essendo a conoscenza delle malefatte? E’ pura illusione che uno Stato ne denunci un altro. Bisogna invece cercare di dare potere di iniziativa a organi indipendenti che possano mettere in mora gli Stati”.

Davanti alla commissione Esteri lei ha di fatto lanciato un appello ai parlamentari italiani in questo senso.

“Il Governo italiano sta assumendo un’ottima posizione e crede molto in questa iniziativa. Lo dimostra il fatto che con spese anche cospicue ha deciso di ospitare la conferenza diplomatica a Roma.Bisogna spingere il Governo ad appoggiare un’azione preventiva. Prima dell’estate del prossimo anno, quando, dal 15 giugno al 15 luglio, si adotterà il trattato internazionale che costituirà lo statuto della Corte internazionale permanente di giustizia”.

Intanto il suo tribunale continua a lavorare, anche se non ha una polizia giudiziaria a disposizione. Quanto sta pesando la mancata collaborazione delle autorità croate e serbe?

“Pesa molto. Soprattutto a causa di Belgrado e Pale (la capitale dell’autoproclamata repubblica serba di Bosnia, ndr). Belgrado per esempio si rifiuta di riconoscre la nostra competenza e la nostra autorità. Si sa che noi non consentiamo la procedura in contumacia. Il presidente della Corte suprema militare di Belgrado un giorno mi ha detto, riferendosi agli individui incriminati per crimini di guerra `Ma noi mica glieli possiamo estradare, questi sono nostri cittadini… Dateci le prove e li processiamo noi’. Mi sono fatto una risata e ho ribattuto: ‘Noi le prove non gliele daremo mai. Le raccolga lei e li processi’. C’è insomma una chiarissima volontà politica di non fare alcunché. La Croazia ha fatto arrivare da noi qualcuno e quindi possiamo dire che collabora così così. La Bosnia collabora sì. Ma il problema restano i serbi che ci impediscono di arrestare Karadzic e Mladic”.

Come valuta l’attività svolta finora dal suo tribunale?

“Il bilancio è positivo, soprattutto se pensiamo a come eravamo partiti. Nel novembre del 1993, quando ci siamo riuniti all’Aja avevano soltanto 11 giudici, tre stanze prese in affitto per un mese e quattro segretarie anche loro assunte con un contratto di un mese. Dimenticavo: quattro computer che ci sono stati prestati. Non avevamo nemmeno le toghe. Zero. Ora però siamo arrivati mettere in piedi un’infrastruttura fondamentale che dovebbe diventare la sede della Corte permenente internazionale che rimarrà all’Aja. C’è una sede, un carcere (il primo delle Nazioni Unite sotto giurisdizione internazionale, non sotto giurisdizione di uno Stato). Abbiamo la sala delle udienze che è costata da sola 6 miliardi, tecnologie modernissime che esistono soltanto in America. Noi giudici abbiamo degli schermi sui quali in tempo reale leggiamo ciò che si dice nell’aula. Abbiamo 434 persone che lavorano per il tribunale. Ci sono oltre 70 imputati, di cui 9 detenuti nel nostro carcere. Insomma, il tribunale esiste e c’è anche l’infrstruttura normativa che lo regge. Non è poco”.

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