Mare nostrum “inquinatum”

Clima mite, belle spiagge e ricche testimonianze di antiche culture. Per tutto questo il bacino del Mediterraneo è meta di un enorme flusso di turisti. Ai più di 300 milioni di abitanti stabili, si aggiungono ogni estate oltre 100 milioni di visitatori, con conseguenze disastrose sull’ambiente. Ma non è che la punta dell’iceberg. Per secoli le popolazioni non hanno preso nemmeno in considerazione l’idea di gestire o proteggere le regioni marine: gli oceani erano infiniti, troppo vasti per essere esplorati e troppo grandi per essere sporcati. Tuttavia, se mari e oceani possono sembrare invulnerabili, sono soggetti in realtà alle medesime pressioni di fondo che minacciano l’ambiente terrestre: la rapida crescita della popolazione mondiale, l’espansione industriale, i consumi crescenti, la povertà cronica. L’inquinamento costiero e la distruzione dell’habitat vanno di pari passo.

Per costruire città lungo la costa, per esempio, le autorità drenano le zone umide o ricoprono altri habitat. Gli effetti dell’inquinamento provocato da case, strade, fogne, impianti industriali sono esacerbati dalla distruzione delle zone umide che precedentemente servivano a intrappolare sedimenti, nutrienti e sostanze tossiche. Se a ciò si aggiungono traffico marino e sversamenti “accidentali” delle petroliere (per tacere del rischio rappresentato dalle decine di barche affondate con una carico di scorie radioattive, ultimo sistema di smaltimento illegale), il quadro si completa.

E tutto ciò si amplifica quando il problema viene a inserirsi nel contesto del Mare Mediterraneo, un bacino quasi chiuso, con una concentrazione di popolazione, di attività produttive, residenziali, ricreative, di trasporto tra le maggiori di tutte le coste planetarie. Il Mediterraneo scambia le proprie acque con l’Oceano Atlantico solo attraverso lo Stretto di Gibilterra (e dal secolo scorso anche con il Mar Rosso “grazie” al canale artificiale di Suez): occorrono circa 80 anni perché la sua massa idrica venga completamente rinnovata. Inoltre, gli alti tassi di evaporazione e il lento scorrimento delle correnti marine provocano un accumulo delle sostanze inquinanti, che non riescono a degradarsi. Ciò fa del Mediterraneo un ecosistema particolarmente esposto a un gran numero di minacce.

Nel Mediterraneo arrivano gli scarichi fognari e industriali di tutti i paesi costieri. Le grandi città europee e del Nord Africa – da Marsiglia a Tunisi, da Barcellona ad Alessandria d’Egitto passando per Napoli, Atene, Genova, Palermo – devono gran parte delle loro attività allo sfruttamento delle vie marine. Più di 60 grandi impianti chimici e raffinerie situati lungo le coste scaricano ogni giorno un milione e 200 mila tonnellate di acque reflue, contaminate da metalli pesanti e altri inquinanti. Inoltre il Mediterraneo è attraversato da alcune delle più importanti rotte del petrolio: circa il 20 per cento del traffico mondiale di greggio le percorre (circa 250 petroliere solcano le sue acque solo nel momento in cui state leggendo questo articolo).

Di fronte all’insieme di queste minacce, il Mediterraneo ha mostrato fino a oggi una sorprendente capacità di autodepurazione. Eppure come non definire campanelli d’allarme – oltre alla erosione delle coste e alla difficoltà di balneazione (almeno nei paesi che effettuano controlli) – anche fenomeni evidenti come quello delle “mucillagini”, che hanno invaso negli anni scorsi soprattutto l’Adriatico (ma che la Goletta Verde di Legambiente ha incontrato anche nel viaggio di quest’anno), le quali, consumando l’ossigeno presente nelle acque marine, rendono impossibile l’esistenza di altre forme di vita.

D’altra parte bisogna sottolineare che, nonostante abbia una bassa produttività ecologica, il Mare Mediterraneo (così come le terre che le circondano) è caratterizzato da un alto tasso di diversità biologica. Molte sono le specie animali endemiche, e la sua fauna è considerata più ricca di quella delle coste dell’Atlantico. Inoltre, tutti gli ecosistemi con più alto valore ecologico sono concentrati nella stretta area costiera, che si estende dalla battigia al limite estremo della piattaforma continentale. Proprio quella fascia maggiormente interessata dalle attività umane e dalla urbanizzazione del litorale. Circa 40 specie della vegetazione sottomarina mediterranea – 38 di alghe e 2 di fanerogame – sono in regressione in questi ultimi dieci anni.

E non sono diversi i rischi per la fauna: dal cavalluccio marino, al corallo rosso, dal dattero di mare ai cetacei molte sono le specie in pericolo. Tra tutte, due sono esemplari degli effetti negativi della eccessiva antropizzazione delle coste: la tartaruga marina e la foca monaca. Il cemento che invade i litorali, la difficoltà di trovare spiagge e grotte non disturbate, infatti, ne hanno messo in pericolo le popolazioni. La tartaruga marina sembra avere abbandonato il bacino occidentale del Mediterraneo e in Italia ha qualche residuo nido in Sicilia, Puglia e Calabria. Quanto alla foca monaca – meno di 400 esemplari in tutto il Mediterraneo – è virtualmente scomparsa dall’ultimo sito italiano, il Golfo di Orosei: scacciata da cale e spiagge occupate dall’uomo, è stata costretta a rifugiarsi nelle grotte con conseguenze negative per la riproduzione (molti infatti sono stati gli aborti e i casi di rachitismo tra i piccoli).

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