Psicoanalisi, come è cambiata dai tempi di Freud

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Il divano di Freud

E’ noto l’aneddoto che racconta come Freud e Jung, all’inizio della loro relazione, si trovarono d’accordo nel definire il transfert l’alfa e l’omega del trattamento psicoanalitico. E’ altrettanto noto che il padre della psicoanalisi elaborò successivamente la teoria secondo la quale il transfert andasse provocato durante l’analisi, poiché la sua risoluzione avrebbe rappresentato la guarigione.

Di parere contrario era invece Jung, che riteneva più utile lasciare ai processi inconsci l’evoluzione delle proiezioni transferali. Ma entrambi, al di là delle loro divergenze, avevano notato, fin dai primi trattamenti terapeutici, che i pazienti riproponevano nella relazione con il medico lo stesso modello introiettato con i genitori, con le relative identificazioni.

Psicoanalisi e teoria dell’attaccamento

Da questa constatazione nacque la convinzione che, come scrisse Freud in un famoso saggio del 1914 intitolato Ricordare, Ripetere e Rielaborare, l’individuo ricorda il proprio passato non tanto con la memoria ma piuttosto con la riproposizione dell’esperienza già vissuta, al pari delle profezie che si autoavverano.

Oggi questa convinzione è condivisa da quasi tutte le scuole psicoterapeutiche, anche non analitiche, ed è stata formalizzata con il termine di “teoria dell’attaccamento” da John Bowlby. Secondo Bowlby, durante i primi anni di vita l’essere umano struttura, nella relazione con le proprie figure di attaccamento, dei modelli operativi interni che da adulto riproduce inconsciamente nelle relazioni affettive.

In questo senso, il rapporto analitico venne visto, e viene visto tuttora, come la riproduzione dell’esperienza vissuta dal paziente nell’infanzia che, proprio perché differente da quella presente fra analista e paziente, ne denuncia la fissazione a stadi infantili.

Per questo motivo il setting analitico può essere considerato come un laboratorio dove è possibile vedere nel transfert, come attraverso un telescopio, i modelli affettivi di attaccamento; tanto più che, paradossalmente, questi vengono riproposti con maggiore ostinazione proprio quando sono stati insoddisfacenti.

Sul set di Freud regole rigide e forti emozioni

Così il setting fu studiato in modo tale che la realtà che vi si riproduceva evidenziasse gli aspetti patologici del paziente; ed è per questo motivo che sono state introdotte delle regole rigidissime. Le regole fanno sì che che la relazione fra analista e paziente sia, per così dire, depurata da quei fattori che disturbano o che impediscono l’analisi dei vissuti transferali.
La struttura del setting è stata pensata, dunque, per creare artificialmente le condizioni affinché scattino, in modo evidente, i meccanismi che rendono la relazione analitica la riproduzione paradigmatica dei modelli operativi interni del paziente. In questo senso si può parlare di simulazione.

I vissuti di entrambi i partner della relazione analitica, nonostante il setting sia appunto pensato secondo la logica del “b”, sono caratterizzati invece da un forte coinvolgimento emotivo. Infatti, senza tale coinvolgimento affettivo da parte sia dell’analista che del paziente, non si può parlare di cura.

Infatti, il cambiamento dei modelli operativi strutturati nell’infanzia è possibile solo se effettivamente il paziente vive una nuova esperienza affettiva con l’analista; questa volta in termini coscienti. Va, però, ribadito che non è sufficiente rendere coscienti i modelli perché ci sia un cambiamento, ma è necessaria un’esperienza che vada al di là della coscienza.

Freud e la sottomissione terapeutica

A Freud va il merito di aver formulato per primo le regole che ancor oggi, a un secolo di distanza, strutturano il setting; regole ritenute a ragione fondamentali perché si possa parlare di psicoanalisi. Regole che non a caso sono state adottate, in modo più o meno ortodosso, da quasi tutte le altre scuole di psicoterapia. Ma Freud immaginò il setting in modo così rigido non solo perché si potessero riproporre nel transfert i modelli operativi del paziente, ma anche perché questo rispondeva alla sua visione del mondo e della natura umana.

Per Freud, come per i Greci antichi, l’essere umano è un essere tragicamente lacerato che ripete, nella sua singolare esistenza, sia la filogenesi che l’ontogenesi della storia dell’umanità. Così come ogni cultura umana, si è data una serie di limitazioni che permettessero la convivenza civile, altrettanto deve avvenire nello sviluppo evolutivo di ciascun individuo.

Il bambino è visto come un selvaggio che va umanizzato, e la nevrosi dell’adulto viene considerata, da un lato, un desiderio inconscio di restare nel mondo magico dell’infanzia, dall’altro, una resistenza ad accettare i limiti del mondo civilizzato.

Differentemente dalla visione cartesiana che riduceva l’essere umano a una macchina, e differentemente da un certo sguardo medico che vede l’individuo nei soli termini di organismo da curare, Freud legittimò le ragioni e i desideri del corpo, rimossi dalla cultura e dalle religioni. Ragioni e desideri non riconosciuti dall’individuo, e in conflitto con la morale e il convivere civile. Per lui, come aveva già sostenuto Hegel, la condizione, non solo sufficiente, ma necessaria perché si abbia il passaggio da una dimensione magica e onnipotente, legata ai desideri, a una dimensione gerarchicamente organizzata come quella civile, fondata sul riconoscimento dell’altro, è un atto di sottomissione.

Il setting, dunque, non solo deve permettere di sciogliere i nodi affettivi irrisolti attraverso la risoluzione del transfert, ma anche rappresentare il modello dello sviluppo dell’individuo. Le regole, con le loro limitazioni, riproducono in scala ridotta l’evoluzione della specie e della vita umana. Così come la vita ha una durata limitata, l’analisi nasce come rapporto a termine, così come i rapporti adulti sono parziali, il rapporto analitico è ancora più parziale, così come la civilizzazione della società si fonda sul superamento dei vincoli familiari, l’analista deve essere un illustre sconosciuto di cui il paziente non sa nulla.
Infine, il modello è autoritario, nel senso che richiede la sottomissione ad una Legge che trascende lo stesso analista, di cui però egli è il rappresentante di fronte al paziente.

La relazione fra il paziente e l’analista rappresenta dunque il campo di battaglia (così lo definì Freud) dove si gioca una partita il cui esito è l’atto di sottomissione, al quale, in cambio, dovrebbe corrispondere il riconoscimento nel consenso civile. In altre parole, ciò che il paziente non ha voluto accettare nella sua vita passata, lo dovrebbe accettare ora, per libera scelta, assumendosene la responsabilità.

Questi, per grandi linee, i termini che legittimavano la strutturazione del setting così come ci è stato tramandato, e come è tutt’ora adottato da una certa ortodossia.

Dalla soggettività alla relazione: il nuovo setting dopo Freud

Ma questi termini sono stati in parte superati, non solo dall’esperienza clinica, ma anche dall’osservazione dell’interazione madre-bambino che sofisticate telecamere hanno permesso di riprendere. Queste osservazioni hanno mostrato come i modelli operativi interni che l’individuo struttura non dipendono tanto dalla sua soggettività, ma soprattutto della relazione intersoggettiva. Termini superati anche dalla critica epistemologica, che ha messo in discussione la teoria freudiana degli istinti come unico sistema motivazionale.

L’esperienza clinica, la ricerca empirica e la riflessione teorica hanno ora messo in evidenza che la capacità di accedere ad un mondo adulto, e a instaurare rapporti affettivi soddisfacenti, dipende non tanto dalla sublimazione degli istinti, quanto piuttosto dalla strutturazione di un’identità all’interno del rapporto fondamentale con la madre. Un’identità che si struttura attraverso il reciproco riconoscimento fin nei primi mesi di vita, e non in un atto di sottomissione in un periodo avanzato dello sviluppo.

La sofferenza, secondo questo nuovo punto di vista, è data dalla mancata sintonizzazione della madre con i bisogni e le richieste del figlio. La rimozione, quindi, non è più causata da un conflitto morale, ma da un trauma dovuto a molti episodi non sintonici nell’ambito della relazione. La rimozione rappresenta, perciò, un meccanismo di difesa che l’essere umano adotta quando è lasciato solo con se stesso, in un periodo fondamentale della sua vita. Il rimosso diventa così l’elaborazione fantastica e compensatoria della mancata risposta dell’altro. La figura dell’altro non viene, cioè, introiettata in termini oggettuali – cosa che consente di riconoscerla come altro da sé nella vita adulta – ma continua a mantenere nel presente il potere di confermare o di sconfermare il modello strutturato nell’esperienza vissuta con la figura di attaccamento.

In questo senso, i sintomi non sono rappresentanti di qualcos’altro, ma un meccanismo di difesa il cui senso è mirato a salvaguardare il legame affettivo. Legame a cui l’essere umano, malgrado le risposte non sintoniche, non può rinunciare pena la caduta in un mondo autistico.

La psicoanalisi è ancora una terapia valida?

Di fronte a questi radicali cambiamenti è dunque lecito chiedersi se il setting, così come ci è stato tramandato, sia ancora valido, e se le sue rigide regole siano coerenti con l’idea che il cambiamento avviene attraverso un’esperienza mutativa. E’ evidente che l’idea tradizionale dell’analista come specchio neutrale, che rimanda al paziente le sue proiezioni e identificazioni, dal punto di vista dell’intersoggettività provoca solo nuove ritraumatizzazioni. Le sue risposte, infatti, lasciano inevitabilmente il paziente solo con se stesso, ad elaborare un presunto processo intrapsichico, senza aiutarlo a costruire uno spazio mentale capace di esprimere stati affettivi sofferenti, privi di rappresentazione, e sostanzialmente legati al corpo. Così come è evidente che le regole rivolte a far accettare al paziente la famosa castrazione non hanno più ragione di esistere.

Uno psicoanalista per amico

Il setting inteso come laboratorio in cui avviene un’esperienza mutativa resta, invece, non solo valido, ma il cardine della terapia. Le limitazioni, in questo nuovo contesto, non costituiscono più dei divieti, ma svolgono una funzione positiva di contenitore dell’esperienza; oltre che di rispetto dell’etica della responsabilità. L’asimmetria fra paziente e analista, come quella fra la madre e il figlio, riguarda il grado diverso di consapevolezza e di ruolo che di fatto i due partner svolgono. In questo senso, cade anche la posizione dell’analista come rappresentante della Legge e del Sapere. L’asimmetria, inizialmente necessaria deve, man mano che la terapia procede, sfumare in una completa reciprocità; che ne indica appunto la fine. Una reciprocità che rimandi, perché no?, all’amicizia che lega due compagni di viaggio, uniti dall’unicità dell’esperienza condivisa.

Foto di ROBERT HUFFSTUTTER via Wikipedia.

1 commento

  1. non possiamo che ringraziare col cervello e col nostro cuore
    chi ci permette di leggere queste sapienti e sagge considerazioni ; ai miei 88 anni continuo sempre ad avere
    la sete del sapere, del comprendere da chi non è limitato
    dall’erudizione ma dalla cultura, che è l’anima della vita.
    Ancora grazie !!!!!

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