ET, se ci sei batti un colpo

“Contact”, contatto. E’ il titolo dell’ultimo film di Robert Zemeckis tratto dall’omonimo romanzo che il fisico Carl Sagan scrisse nel 1985. Sullo schermo la scienziata Ellie Arroway riesce a stabilire un contatto con intelligenze aliene, ricevendo e decodificando un segnale radio proveniente dalla stella Vega. Ellie è frutto della fantasia degli sceneggiatori, ma potrebbe essere un personaggio reale. Perché, al di là delle sequenze del film o le pagine del romanzo, sono molti i ricercatori che dedicano la loro carriera a al progetto Seti (Search for Extraterrestrial Intelligence) indagando se ci sia vita intelligente nell’universo. Ma come si svolgono queste ricerche? Chi vi partecipa? Chi le finanzia? E soprattutto, quali risultati si sono ottenuti?

Nell’Universo ci sono miliardi di galassie, ciascuna con centinaia di miliardi di stelle. L’esistenza di condizioni favorevoli allo sviluppo di qualche forma di vita è quindi abbastanza probabile. Ma si può andare oltre e ipotizzare che in uno di questi mondi si sia evoluta una civiltà tecnologicamente avanzata, in grado comunicare con noi. Per esempio inviando o ricevendo segnali elettromagnetici: luce o, meglio ancora, onde radio. Ecco perché alcuni scienziati hanno deciso di mettersi in ascolto con le tecnologie più avanzate. Sperando di scoprire che non siamo soli nell’Universo.

Ma perché limitarsi ad ascoltare dalla Terra eventuali segnali alieni in un’era in cui è possibile esplorare lo spazio con razzi e sonde sempre più veloci? Purtroppo le distanze interstellari sono tali che è impensabile, e troppo costoso, andare alla ricerca della vita nell’Universo a bordo di astronavi. Ci vorrebbero, pur viaggiando alla velocità della luce, 4 anni per raggiungere Alpha Centauri, una delle stelle più vicine al Sole. Così captare eventuali segnali elettromagnetici è il modo più economico e veloce per stabilire un contatto. E proprio le onde radio sono le più efficaci per comunicare tra le stelle. Infatti non vengono assorbite dai gas interstellari, come succede alla luce visibile o agli infrarossi, e penetrano indisturbate l’atmosfera terrestre. E’ probabile che una civiltà tecnologica simile alla nostra diffonda involontariamente onde radio nello spazio (basti pensare alle nostre televisioni). Ma potrebbe addirittura trasmetterle intenzionalmente, per comunicare.

Perciò, nel lontano 1959 in un articolo su Nature, Giuseppe Cocconi e Philip Morrison fisici della Cornell University sostennero l’idea di utilizzare i radiotelescopi per scoprire eventuali segnali extraterrestri. E nel 1960 il radioastronomo Frank Drake iniziò la prima ricerca di microonde radio provenienti da sistemi solari simili al nostro. Nasceva così Seti, l’organizzazione mondiale che ancora oggi coordina molti dei radiotelescopi in ascolto. Fino al ‘93 i finanziamenti sono arrivati dalla Nasa. Poi il congresso statunitense ha tagliato questi fondi e oggi Seti sopravvive grazie a varie agenzie governative, fondazioni private o singoli donatori.

Ma i radiotelescopi terrestri non erano progettati per cercare segnali alieni. Era necessario sviluppare strategie e tecniche di ascolto sempre più raffinate. Dove puntare le antenne? E a quale frequenza sintonizzarle? All’inizio si scelse di puntare verso le stelle simili al Sole della nostra galassia e di cercare segnali alla frequenza tipica dell’elemento più diffuso nel cosmo, l’idrogeno, a 1,420 MHertz. Oggi si puntano gli strumenti verso regioni sempre più lontane e l’intervallo di frequenza si è notevolmente allargato.

Uno dei radiotelescopi più grandi e più usati è quello di Arecibo (Puerto Rico) che ospita dal 1979 Serendip, cioè Search for Extraterrestrial Radio Emissions from Nearby Developed Intelligent Populations. E’ il programma dell’Università di Berkeley che ora, con Serendip IV, può analizzare 168 milioni di canali al secondo in una banda di frequenze larga 100 MHertz. I finanziamenti provengono dall’associazione Amici di Serendip di cui fanno parte personaggi come Artur C. Clarke, Frank Drake e lo scomparso Carl Sagan.

In Australia lo stesso Frank Drake è presidente di un centro Seti che dal 1995 ha un proprio radiotelescopio, il Macarthur. Tra le montagne della California c’è invece il Seti Institute con il progetto Phoenix che ha iniziato l’ascolto nel febbraio del 1995 con il radiotelescopio Parkes in Australia e che ora utilizza uno strumento nel West Virginia (Usa). Anche l’Università di Harvard è della partita con Beta (Billion channel Extraterrestrial Assay), una radioantenna nel Massachusetts. Il progetto è figlio di Meta e nipote di Sentinel, due antenne che negli anni Ottanta hanno scrutato il cielo in tutto l’emisfero nord, ed è particolarmente efficiente nel controllo rapido dei segnali candidati per escludere o avvalorare qualsiasi possibilità.

Esiste poi una rete di 10 antenne sparse in tutto il mondo, il Very Large Baseline Interferometry (Vlbi) che ha permesso di migliorare le prestazioni dei singoli strumenti. Infatti, maggiore è il diametro del radiotelescopio migliore è la sua capacità di distinguere un segnale. E’ possibile unire l’informazione di due antenne come se si disponesse di un unico strumento del diametro pari alla loro distanza. Di questa rete fa parte anche l’Italia, e l’Istituto di Radio Astronomia di Bologna, diretto da Stelio Montebugnoli, parteciperà dalla fine di quest’anno al progetto Seti con le due parabole del Vlbi che si trovano a Bologna e a Noto (Siracusa). Inoltre un recente accordo con l’Università di Berkeley porterà nel nostro paese uno strumento dalla tecnologia avanzata simile a Serendip IV.

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