Ma la ricerca non arriva in corsia

Amburgo, 1997. E’ il congresso della terapia, a due anni dall’introduzione degli inibitori della proteasi accanto agli inibitori della trascrittasi inversa (quelli della famiglia dell’Azt, per intenderci) e della messa a punto di quel famoso “cocktail di farmaci” che è stato salutato come “miracoloso” perché ha avuto il sorprendente effetto di arrestare la marcia dei virus dell’Hiv e permettere la ripopolazione nel sistema immunitario dell cellule Cd4. E’ il congresso del “dopo-cocktail”, che vede l’introduzione di misture a base di quattro, cinque, sei tipi di farmaci (tutti appartenenti comunque alle famiglie degli inibitori di proteasi e trascrittasi inversa: antiretrovirali, insomma), e dove ci si dimentica che già il coktail a tre presenta diversi problemi di compliance, da parte di pazienti costretti ad assumere fino a venti compresse al giorno. E’ il congresso dell’ “early treatment”, ovvero del principio per cui bisogna cominciare a trattare i sieropositivi il prima possibile: quando? E’ una domanda a cui nessuno sa dare risposta.

Ma soprattutto, è il congresso del trionfo della big science e della sua stella: il cinoamericano David Ho, l’uomo che per primo ha parlato della possibilità di eradicare il virus (ma che proprio qui ad Amburgo fa una clamorosa marcia indietro), l’uomo che ha conquistato la copertina di “Time”, l’uomo che tutti vogliono intervistare. E’ lui la nuova star del firmamento dell’Aids e già questo la dice lunga su quello che veramente è successo ad Amburgo.

Ciò che è apparso tristemente chiaro nell’orribile congress-halle della città tedesca è infatti una spaccatura, forse inevitabile, tra la ricerca medica di punta e la clinica. Finanziata come nessun’altra mai, la ricerca scientifica sull’Hiv e sulle molecole che ne contrastano la replicazione ha raggiunto vertici di raffinatezza del tutto inediti: migliaia di scienziati oltrepassano a ritmo incessante nuove e sempre più impervie frontiere, e presentano studi affascinanti basati su scenari fantasiosi, ma verificati su un numero risibile di pazienti: una ventina, o anche soltanto 11. Così si propongono i cocktail a sei farmaci, o il trattamento di sieropositivi appena infettati, (e quindi clinicamente sani), con bombe antiretrovirali dai catastrofici effetti collaterali. Sostenendo il tutto con modelli matematici inoppugnabili, ma con prove cliniche insufficienti.

Insomma: trionfa la scienza, ma sono spariti i pazienti dalla galassia Aids. Proprio quei pazienti che avevano marcato questo settore della medicina con la loro ingombrante e drammatica presenza, che sono presenti a tutti i congressi, che con le loro associazioni sorvegliano l’attività delle case farmaceutiche – le quali, per ottenere la registrazione dei farmaci devono esibire le prove cliniche fatte su ben più di venti casi. Così, mentre gli scienziati modellizzano scenari affascinanti, i clinici faticano a capire come e quando usare quel cocktail a tre che la ricerca ha ormai messo in naftalina. E i pazienti, spariti dall’obiettivo dei ricercatori, spesso non trovano nemmeno due di quei tre medicinali necessari al cocktail: in Italia, per esempio, la Lega Italiana per la Lotta all’Aids denuncia che molti malati sono ancora curati con la monoterapia, e quindi per lo più condannati a una morte precoce.

Cosa c’entra in tutto questo il dottor Ho? Lui è il simbolo di questo orizzonte mutato. E’ un uomo che fa tutto con i modelli, che ha idee geniali e fantasiose, ma che presenta studi condotti su pochissimi individui. E’ un grande scienziato, come molti ce ne sono stati in questi tredici anni di storia dell’Hiv. Ma fino a ieri, questi superspecialisti erano fuori dal cono d’ombra. A parte gli scopritori del virus, Gallo e Mantaigner, le star da prima pagina erano i clinici. Quelli insomma che devono sperimentare i farmaci e dare le linee guida dei trattamenti. Ma soprattutto, quelli che vedono i pazienti.

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