Il volto umano del telelavoro

    “Esistono abitudini, negli individui e nelle famiglie, che non possono essere scalfite. L’uomo ha necessariamente bisogno di rapporti diretti, dal mangiare con i colleghi al vedersi di persona: azioni che servono a valutare alcune parti costituenti della persona, come i gesti, le posture, le espressioni, indispensabili per una corretta interpretazione dell’altro”. Parole di Franco Bigi, ingegnere, da dieci anni capo di divisione nella Direzione Generale XIII – il settore che si occupa di programmi sulle telecomunicazioni presso la Commissione europea – e responsabile della divisione V dell’Ingegneria dei servizi. In un’intervista esclusiva per Galileo, registrata nel corso della Settimana europea del Telelavoro, Bigi spiega quali possono essere le conseguenze sociologiche di un fenomeno che coinvolge sempre più cittadini.

    Dottor Bigi, perché il telelavoro non si è ancora diffuso in modo capillare?

    “Perché si è sempre cercato di applicarlo per via tradizionale. E’ accaduta la stessa cosa di quando si voleva sostituire il computer al libro mastro: si usava la macchina solo per fare le semplici operazioni. Ma usare il computer come addizionatore, moltiplicatore o divisore era una visione molto limitata. Allo stesso modo, se io penso al lavoro tradizionale e lo trasformo nel telelavoro colgo solo la metà delle potenzialità possibili”.

    Quali sono quindi le potenzialità ancora inesplorate di queste tecnologie?

    “L’inventiva, la capacità di mescolare parti di diversi lavori tradizionali e metterli insieme. Da questo punto di vista Internet è un esempio significativo, perché miscela capacità di archiviazione e catalogazione di dati con altre più creative”.

    Ma è vero che il telelavoro incide negativamente sulle relazioni interpersonali?

    “Indubbiamente questo rappresenta un vincolo. Il fatto stesso di essere presente qui a Roma, anziché collegato da Bruxelles in videoconferenza, significa qualcosa. Non credo che il telelavoro sia uno modello valido per tutti i tipi di occupazione, e per sempre. Non si può pensare al telelavoro come ad un’interfaccia per costruirsi un eremo. Quel che serve è invece una discreta capacità di organizzazione. Alcune volte, se ci si conosce già di persona, ci si può sintonizzare sulla stessa schermata e collaborare via audio: non serve il valore aggiunto del video. In altri casi basta il collegamento via Isdn. Infine, alcune questioni sono risolvibili senza alzarsi dalla poltrona: basta una telefonata moderna, cioè multimediale”.

    Entro quanti anni pensa che il lavoro possa diventare un fenomeno di massa?

    “Questo è molto difficile da prevedere. Il successo di ogni tecnologia dipende da molti fattori collaterali, che non sono sempre direttamente collegati con l’iniziativa privata. L’esempio tipico è stato il boom del fac-simile: la diffusione di questo strumento è avvenuta di recente, nonostante che già all’inizio del secolo esistesse una macchina molto simile, il tele-foto, che tuttavia nessuno aveva mai pensato di commercializzare. Una volta che la diffusione della rete sia generalizzata, la tecnologia stabilizzata e lo standard accettato, il telelavoro può esplodere da un momento all’altro. Queste condizioni possono realizzarsi anche per forma dirigistica: un classico esempio di successo pilotato dall’alto è quello del Minitel francese. Il quale altro non è altro che un Internet di prima generazione: il boom del Minitel è avvenuto grazie al governo che lo ha distribuito gratuitamente. Per realizzare il telelavoro, insomma, occorre che si crei una massa critica di persone che ci credono: prima di addetti ai lavori e poi di utenti”.

    Negli Stati Uniti una persona su dieci pratica già delle forme avanzate di telelavoro. A che punto è l’Europa?

    “Negli Stati Uniti il telelavoro esiste da molto tempo. Un giorno lontano di trent’anni fa, quando lavoravo nei laboratori della Bell, sentii questo annuncio: “domani è prevista una tempesta di neve, quindi i lavoratori sono autorizzati a portarsi a casa il loro trasmettitore di dati e collegarsi in rete al seguente numero…”. In quei laboratori si lavorava già senza spostarsi da casa. In Europa questo modo di operare, per una serie di complessi motivi tecnologici e culturali, è arrivato in ritardo. Da noi si è ancora molto ancorati alla logica del posto fisso e dei contratti sindacali. Un’altra barriera è costituita dalla lingua: di inglese sappiamo solo quel tanto che serve per capire il senso di una frase. Ma di fronte all’inglese standard la maggior parte degli utenti entra in crisi. Questo è il vero dramma dell’Europa telematica. In compenso, il Vecchio continente è più attento agli aspetti sociali della questione”.

    E’ possibile calcolare il numero dei telelavoratori, oppure è impossibile catalogare questa attività a causa del suo status ancora indefinito?

    “Effettivamente è difficile ottenere dati precisi. Telecom Italia, per esempio, ha stimato 50 mila lavoratori nel suo ambito. Ma dobbiamo prima decidere chi vogliamo considerare telelavoratore e chi no. Si può andare dalle centinaia di migliaia di lavoratori in rete in Italia sino alle decine di milioni in Europa, soprattutto pensando a quelle nazioni già organizzate da questo punto di vista. Come i paesi nordici, dove l’accesso ai sistemi di comunicazione è relativamente più facile. Comunque, è innegabile che il telelavoro derivi anche dalla reale globalizzazione telematica. Esistono attività che non sono legate a una località definita, e che vanno quindi a posizionarsi là dove il mercato del lavoro è flessibile, e quindi più conveniente. Questa è la sfida che deve vincere l’Italia”.

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