Maschio inquinato, padre mancato

Spermatozoi in pericolo, minacciati dall’inquinamento? L’ipotesi, già avanzata da qualche tempo negli ambienti scientifici, si fa sempre più probabile. L’allarme è suonato al seminario “Infertilità e inquinamento ambientale” organizzato a Roma la scorsa settimana dal Centro Europeo Ambiente e salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dall’Associazione Madre Provetta e da Legambiente. All’incontro internazionale, un gruppo di ricercatori danesi ha spiegato come alcuni estrogeni ambientali (ormoni non prodotti dall’organismo ma che sono presenti nell’ambiente), possano innescare pericolose reazioni nei delicati equilibri ormonali dell’organismo umano. Alcune tanto gravi da compromettere le funzioni riproduttive di uomini e animali. E i primi campanelli d’allarme suonerebbero già nel corso dello sviluppo del feto maschile.

“I recettori cellulari per gli ormoni sono stupidi”, dice l’epidemiologo danese Philippe Grandjean, “nel senso che non riescono a distinguere un ormone prodotto dall’organismo umano da uno estraneo. Così gli xenormoni possono inserirsi nell’organismo e provocare danni gravi al Dna e al sistema endocrino. Tra le possibili conseguenze di queste azioni c’è anche l’infertilità maschile”.

Un fenomeno in crescita, quello della sterilità maschile, e che riguarda tutti paesi sviluppati. Ma i dati relativi a questo problema non sono ancora omogenei né esaurienti, perché nessuno ha ancora fatto un censimento completo. Il 15% delle coppie italiane lamenta problemi collegati all’impotenza, mentre in Europa è colpito da questo problema il 5,6% della popolazione totale. Secondo i dati dell’Associazione Madre Provetta, sarebbero circa 50 milioni le persone che nel mondo soffrono di sterilità, e 20-25 mila le coppie italiane che ricorrono alle tecniche di procreazione assistita. Negli ultimi quindici anni, inoltre, il tumore al testicolo, l’infertilità e la bassa qualità seminale negli uomini di età compresa fra i venticinque e i trent’anni, mostrano una tendenza esponenziale.

Quali sono le sostanze sospettate di interferire con la salute riproduttiva umana? Per esempio i pesticidi usati in agricoltura, che entrano nella nostra catena alimentare e abbondano sulle nostre tavole, o le fibre tessili dei vestiti che indossiamo. Ma anche lo shampoo con cui ci laviamo i capelli, che contiene proprio quegli estrogeni ambientali accusati di interferire con il sistema endocrino, e numerose altre sostanze legate soprattutto ai cicli produttivi industriali.

Ecco perché la possibilità che nel corso della vita adulta le cellule umane vengano a contatto con queste sostanze è elevatissima. Eppure, secondo i recenti studi danesi, il rischio più alto si verificherebbe durante la fase fetale.

Il sistema ormonale del feto si sviluppa infatti nei primi mesi di gravidanza Le sostanze inquinanti ad attività estrogenica presenti nell’ambiente possono “disturbare” la naturale azione degli estrogeni materni sul nascituro. In questo modo il sistema endocrino del feto potrebbe venire danneggiato. Nel caso di un embrione maschio questa intrusione potrebbe influenzare anche le fasi successive dello sviluppo, fino a ridurre drasticamente il numero di spermatozoi prodotti dagli adulti.

La placenta, insomma, non è in grado di difendere l’embrione dai nuovi inquinanti chimici. Non era stata programmata per farlo. Questa è l’ipotesi cui è giunto l’epidemiologo Philippe Grandjean, partendo da diverse osservazioni effettuate su un campione danese. “Se il contatto con queste sostanze tossiche avviene allo stato fetale, occorre tutelare la salute della madre già nei primissimi mesi di gravidanza ed evitare di esporre le donne incinte a composti nocivi, soprattutto sul luogo di lavoro”, consiglia l’epidemiologo.

Naturalmente si tratta ancora di ipotesi, conclude Grandjean. “Ma le ipotesi vanno prese in considerazione per arrivare a una maggiore sensibilità al problema. Siamo in ritardo di venti, forse quarant’anni. Il punto controverso sono le soglie di tollerabilità degli inquinanti ambientali. Finché non le conosciamo non possiamo valutare i rischi. Si devono anche elaborare statistiche più precise, sia sul fronte delle specie animali che degli esseri umani”.

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