Kyoto, il summit del compromesso

L’accordo sul riscaldamento del clima raggiunto l’11 dicembre è un compromesso tra le posizioni dell’Unione Europea e quella degli Stati Uniti, e una sostanziale vittoria per i principali paesi in via di sviluppo o di recente industrializzazione. Giunti alla Conferenza sui mutamenti climatici di Kyoto con la proposta di tagliare le emissioni di gas serra del 15 per cento rispetto al 1990, gli Europei si sono dovuti accontentare di impegni più modesti e articolati: l’8 per cento entro il 2008 per la Ue, il 7 per gli Usa e il 6 per il Giappone. Gli altri 21 paesi industrializzati avranno obiettivi simili, da raggiungere tra il 2008 e il 2012. Quanto al resto del mondo, è passata la linea di Cina e India, che rifiutano di essere vincolati a politiche di riduzione delle emissioni dei gas serra, che potrebbero – dicono – essere di ostacolo alla loro crescita economica e all’uscita della loro popolazione dalla povertà.

Il compromesso è stato variabilmente salutato secondo il classico schema del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto (come riporta per esempio la Cnn). Assolutamente scontenti gli ambientalisti che hanno accusato i delegati di avere deciso di somministrare una semplice aspirina a una Terra con la febbre da cavallo (l’accordo è una “una farsa e una tragedia” secondo Greenpeace, che giudica i tagli concordati “assolutamente insufficienti” a contenere nel prossimo futuro le catastrofiche conseguenze dell’effetto serra). Critico, per motivi esattamente opposti, anche il mondo industriale, pur con importanti eccezioni (non è più una novità, per esempio, l’impegno a combattere i cambiamenti climatici da parte delle grandi compagnie internazionali di assicurazione, preoccupate dal crescente peso dei premi pagati per danni causati da uragani, tifoni, alluvioni e altri eventi meteorologici estremi, che sembrano intensificarsi in relazione con l’effetto serra). Positivo invece il giudizio della maggior parte dei politici, dal commissario europeo per l’Ambiente, Ritt Bjierregaard, che ha rivendicato il successo di aver forzato i riduttivi impegni iniziali di Usa e Giappone, al presidente americano Bill Clinton che ha definito il l’accordo “un grande passo avanti”.

Ma su questo accordo – probabilmente non “grande”, certamente “un passo avanti” – aleggia lo spettro del fallimento. Il Senato americano, a maggioranza repubblicana, è infatti pronto ad affondarlo negando la ratifica da parte del paese che da solo emette un quinto di tutti i gas serra rilasciati in atmosfera. “Ammazzeremo questa legge”, ha dichiarato il senatore repubblicano Chuck Hegel, con un gioco di parole con la parola inglese “bill” che significa legge, ma è anche il nome del presidente Clinton. I repubblicani non approvano l’abbandono della posizione americana che si limitava a proporre la stabilizzazione dei gas serra e soprattutto che ciò sia avvenuto senza che anche Cina e India venissero vincolati a precisi obiettivi di riduzione. Sullo sfondo, tuttavia, c’è una grossa componente di scetticismo nei confronti della effettiva consistenza del riscaldamento della Terra, un atteggiamento che assume spesso i contorni di una vera e propria ossessione antiscientifica. Nel suo rapporto speciale sul “Global Warming”, il settimanale inglese New Scientist ha paragonato questa paranoia alle teorie scientifiche che primeggiavano nell’Urss di Stalin affermando la consistenza di una “genetica marxista”. Spazzatura ideologica, ovviamente, ma con enormi conseguenze negative per lo sviluppo della scienza sovietica. Solo che qui non è più una semplice questione del “socialismo in un solo paese”.

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