La specie, tra vincoli e sesso

Un leone è un leone, una tigre è una tigre. Sono specie differenti, non mescolano i loro geni e, se lo facessero, non ne verrebbe fuori niente di buono. O forse sì? In ogni caso, che cos’è una specie? Quale tipo di confini invisibili derivano dalla nostra abilità di dire a quale parte del mondo appartiene esattamente ogni animale, pianta, fungo o batterio? Che cosa è che rende possibile l’esistenza stessa di una scienza delle classificazioni? Alcuni dicono assolutamente nulla. Altri ritengono che si tratti del sesso. Ancora altri invocano i vincoli genetici e dello sviluppo. Siamo di fronte a un affare oscuro, uno dei più affascinanti, intriganti, fertili e frustranti campi della biologia evoluzionistica.

In origine c’era la specie come entità fissa creata da Dio. Questo era quello che pensava la maggior parte delle persone fino ad Aristotele. Ed era inoltre il pensiero di Carlo Linneo, il naturalista svedese che ha introdotto la nomenclatura moderna binomiale per tutte le specie, e a cui si deve il primo tentativo di classificazione di tutte le forme conosciute di esseri viventi in un sistema coerente. Bene, perché no? Darwin non era ancora apparso all’orizzonte, e i leoni erano stati sempre leoni, per lo meno da quando il genere umano fosse in grado di ricordare.

Prima di Linneo, le specie venivano raggruppate per lo più in base a tipologie molto generali (esseri acquatici vs. esseri terrestri; arbusti, alberi, erbe) o più spesso in base alle esigenze umane (erbe mediche vs. erbacce). Lo scienziato svedese concepì un sistema di classificazione “naturale”. Un sistema che raggruppasse le cose tra loro più simili. Ma quale criterio adottare per un compito così ambizioso? Il sesso, naturalmente. Linneo produsse la più ampia classificazione di piante da fiore, e si rese conto che questi organismi sono incredibilmente variabili nella maggior parte dei loro attributi. La forma delle foglie, per esempio, poteva essere presa a malapena in seria considerazione, dal momento che cambia enormemente da una specie all’altra, o peggio, può presentarsi differente in individui della stessa specie (e addirittura anche in uno stesso individuo stesso). Ma gli organi sessuali rappresentano un’eccezione. La forma, il numero e la posizione di stami e carpelli (gli organi sessuali maschili e femminili delle piante) sono notevolmente costanti in seno a ogni specie e variano ben poco da una specie all’altra. Infatti, l’intera struttura del fiore (che di fatto la funzione di proteggere gli organi sessuali) è ancor oggi utilizzata quasi come una guida per identificare con sicurezza famiglie, generi, e specie delle piante da fiore, confermando l’originaria intuizione di Linneo.

Ma perché ci sono alcune specie più simili tra loro? E soprattutto, perché le specie sono così sorprendentemente coerenti? Per metterla in maniera diversa , perché non vediamo un’infinita varietà di tipi, che variano gradualmente senza soluzione di continuità? Fino ai tempi di Linneo, la risposta (come per molti altri aspetti della vita) era semplice: questo è il volere di Dio. Si credeva che le specie fossero creazioni separate dell’essere onnipotente ed imperscrutabile, e che si conservassero invariate perché fare altrimenti sarebbe stato contrario al volere di Dio. Questa convinzione è ancora mantenuta dai fondamentalisti religiosi dell’est e dell’ovest, ma non più sostenuta dalla scienza (o dalla maggior parte degli esseri razionali). Non più dopo Darwin.

Darwin aveva una risposta pronta per la prima delle nostre due domande: perché ci sono alcune specie più simili tra loro di quanto non lo siano rispetto alle altre? Perché hanno in comune un antenato più recente nel corso del processo evoluzionistico. L’idea è semplice ma potente (come molte delle eccellenti intuizioni che costellano la storia della comprensione umana del mondo naturale). Presupponiamo che tutta la vita sulla Terra abbia avuto inizio da un unico progenitore. Più o meno gradualmente, gli organismi avrebbero cominciato a divergere forgiati dalla selezione naturale per adattarsi ad una varietà di condizioni ambientali. Questa divergenza è andata avanti negli ultimi quattro miliardi di anni, ed ha creato la sbalorditiva varietà di forme che vediamo oggi, (e quella ancora più sbalorditiva di forme estinte che possiamo pallidamente immaginare dai fossili e da alcune ricostruzioni romanzate, come Jurassic Park). E’ semplicemente naturale presupporre che quanto più tempo è passato durante il processo di divergenza di due specie, tanto più queste appariranno diverse. Alla fine, apparterranno a generi , famiglie, ordini o persino regni distinti (sì, è difficile da concepire, ma addirittura le piante e gli animali hanno un antenato comune, anche se per trovarlo bisogna risalire molto lontano nel tempo).

Ma se, secondo l’idea di Darwin, il processo evolutivo è graduale, non dovremmo aspettarci una serie graduale di trasformazioni da una specie a un’altra? Non dovremmo vedere un qualcosa che sta fra un leone e una tigre? O, per lo meno, fra gli elefanti indiani e africani? Perché non ci sono forme intermedie fra esseri umani e scimpanzé? (La risposta non è che gli umani sono speciali e qualitativamente differenti: siamo solamente degli scimpanzé un po’ modificati). Sono questi i punti salienti della diatriba, intorno ai quali la discussione si fa infuocata, controversa ed infinitamente affascinante.

Il concetto di specie biologica: la risposta è il sesso?

La prima definizione scientifica moderna di specie è quella di “concetto di specie biologica”. L’idea fu proposta da una serie di ricercatori, tra cui Theodosius Dobzhansky ed Ernst Mayr (sebbene Mayr la abbia sempre rivendicata come una sua idea originale). Il concetto è apparentemente abbastanza semplice: due organismi appartengono alla stessa specie se sono in grado, anche potenzialmente, di incrociarsi e produrre una progenie fertile.

Come il lettore può immaginare, la semplicità dell’idea di fondo nasconde un intero vaso di Pandora di problemi, con i quali i biologi hanno combattuto nell’ultima metà del secolo o giù di lì. Una prima difficoltà risiede nella praticità della definizione. Dopotutto non vogliamo soltanto sapere cos’è una specie in teoria, vogliamo anche essere in grado, quando ci imbattiamo in un esemplare vivente, di poter dire a quale specie appartenga. Niente da fare. Poiché il concetto di specie biologica si riferisce all’incrocio intraspecifico e alla fertilità della progenie, abbiamo bisogno di fare esperimenti di incrocio, aspettare che la progenie nasca e cresca, e poi testare se la progenie è in grado di conservare la linea di discendenza di quella specie. Una serie di procedure dalla scarsa praticità, non c’è dubbio.

Se i problemi di ordine operativo legati all’idea di Dobzhansky-Mayr sono relativamente di poco interesse per i biologi evoluzionisti, possono diventare un vero incubo per i tassonomi e i naturalisti del weekend. Il vero obiettivo è di ottenere una comprensione scientifica di base riguardo alla natura della specie, e il concetto biologico offre una risposta chiara: semplicemente osservare se queste fanno sesso e si possono riprodurre. La riproduzione, dopotutto, è una pietra miliare della vita, e una definizione di specie che riguardi un punto così cardinale è destinata ad essere la benvenuta dai biologi evoluzionisti.

Eppure, non va tutto così liscio. Una seria obiezione relativa al concetto biologico di specie si trova nella parola “potenzialmente”, quando la definizione si riferisce all’abilità di due organismi di incrociarsi. La ragione per la quale la parola si trova lì è abbastanza chiara. Il fatto che sia molto improbabile che andiate in Cina in qualsiasi momento a procreare con un uomo o una donna cinesi, non implica affatto che voi due apparteniate a specie differenti.Però, come si può saperlo? Ci sono due modi. O si decide sulla base del fatto che i due organismi sembrano abbastanza simili, o si attraversano le barriere geografiche e si fa l’esperimento. La prima soluzione è assolutamente insoddisfacente, poiché di fatto ci riporta indietro al concetto morfologico di specie di Linneo. Il secondo è senz’altro praticabile, sebbene non per gli esseri umani (esistono questioni etiche non irrilevanti!). Così per esempio se veramente abbiamo il sospetto che un leone della Tanzania appartenga ad una specie differente da un leone del Kenia, tutto quello che dobbiamo fare è organizzare per loro una residenza comune in un qualche zoo, e vedere che cosa accade (a patto che, naturalmente, si prendano esemplari di genere diverso…).

Eppure, non è tutto così semplice. Esistono due problemi pratici, in un certo senso di natura opposta. Innanzitutto, è ben noto che alcuni animali appartenenti chiaramente alla stessa specie di fatto non si incrociano in condizioni artificiali. Questo può succedere per varie ragioni, dovute soprattutto all’habitat insolito in cui si ritrovano (anche la mancanza di musica adeguata potrebbe inficiare il risultato). In secondo luogo, a volte membri di specie differenti possono di fatto riprodursi, e addirittura produrre progenie fertile, in condizioni che non si verificherebbero normalmente in natura! Questo ci introduce ad un altro concetto, ben più complesso ma intellettualmente più soddisfacente: la coesione di specie.

Il problema è il sesso: o troppo o troppo poco

Il concetto di coesione di specie è stato proposto da Alan Templeton il quale osservò che: “Come per la maggior parte dei problemi, anche in questo caso si tratta di sesso; o troppo o troppo poco”. In questo caso Templeton non si riferiva ai problemi che gli esseri umani discutono sul lettino dello psicanalista. Si tratta invece di problemi che derivano dal concetto di specie biologica di cui abbiamo parlato sopra.L’idea fondamentale che sottende al concetto di coesione non è così semplice da afferrare come la proposta Dobzhansky-Mary, cosa che probabilmente ha ritardato l’accettazione di questa nuova ipotesi. Le specie, secondo Templeton non sono definite da un singolo fattore predominante, ma da una complessa interazione di diversi elementi, tra cui il sesso e uno fra tanti. Inoltre, l’importanza relativa di questi fattori varia a seconda del particolare gruppo di organismi che stiamo considerando, cosicché una definizione generale e universale di specie è semplicemente impossibile. Per esempio, le specie di batteri senza dubbio esistono, ma non possono essere definite sulla base dei comportamenti di accoppiamento, per la semplice ragione in generale i batteri non fanno sesso (con poche e rare eccezioni!).

La tipica reazione dei sostenitori del concetto di specie biologica, secondo i quali questa obiezione si applica “solo” ai batteri, è scientificamente fallace e assolutamente antropocentrica. Innanzitutto i batteri rappresentano il gruppo di organismi più antico e diffuso sulla Terra. E’ un po’ difficile considerarli un eccezione! In secondo luogo, essi non sono i soli ad avere qualche problema con il sesso. Molte specie di piante, funghi e alghe, e anche alcuni animali, non svolgono alcuna attività sessuale, o ciò accade così raramente da poter essere considerato solo un “collante” per tenere insieme gli individui.

Dall’altra parte dello “spettro” sessuale, come già menzionato sopra, ci sono gruppi di organismi che si incrociano con membri di specie e persino di generi differenti. Questo comportamento, per quanto ne sappiamo, è sostanzialmente assente negli animali, ma non è così raro nelle piante (le orchidee ne sono un esempio tipico). Inoltre il fenomeno generale dell’ibridazione, (cioè di incroci fra specie) è stato studiato fin dagli inizi della biologia evoluzionistica, e sempre più viene considerato come un meccanismo importante – sebbene non prevalente – per formazione di nuove specie. Ma se dall’incrocio di due specie possono avere origine specie nuove, la presenza di barriere riproduttive non può essere la caratteristica che definiva l’esistenza delle due specie iniziali, come vorrebbe il concetto di specie biologica.

Allora, quali altri fattori oltre il sesso contribuiscono al concetto di coesione di specie? Uno è certamente l’insieme delle variabili ecologiche che definiscono la nicchia della specie. In questo caso utilizziamo la parola nicchia in senso intuitivo, intendendo l’insieme delle condizioni ambientali che definiscono l’ambiente e il modus vivendi di una specie, poiché il termine è associato ad un altro terreno minato nella moderna letteratura ecologica, la cui discussione è meglio lasciare ad un altro momento e un altro luogo. Tuttavia, il ragionamento di Templeton al riguardo è convincente. Se due organismi non sono strettamente correlati geneticamente, ma sono sottoposti a sollecitazioni simili provenienti dall’ambiente esterno, è probabile che continuino ad essere membri della stessa unità biologica (specie), anche vivendo in aree geografiche distinte e non avendo reali occasioni di incontrarsi e di incrociarsi. L’ecologia dunque, così come il sesso, è un fattore che mantiene la coesione di una specie. A volte, come nel caso dei batteri o di alcune piante, può essere il fattore prevalente se non l’unico. In altre circostanze, come per esempio per molti gruppi animali, il sesso può avere una maggiore importanza. Spero che il lettore possa apprezzare il potere intrinseco dell’idea di Templeton. Vale la pena di rifletterci.

Limiti e vincoli

Ma il sesso, per quanto fondamentale possa essere, non è l’unico confine che conserva la coerenza all’interno della specie. Un altro tipo di “collante” vasto, dai contorni indistinti, e probabilmente fondamentale è costituito dai vincoli. La parola vincolo (constraint) ha una storia così lunga e complessa che servirebbe un intero volume solo per poter accennare all’interminabile dibattito che su questo argomento infuria tra i biologi sin dal secolo scorso. In generale, esistono tre tipi fondamentali di vincoli: genetico, dello sviluppo e filogenetico.

I vincoli genetici hanno origine dal fatto che una specie o popolazione di organismi potrebbe non contenere il tipo di variazione genetica che serve per sviluppare, per esempio, l’abilità a colonizzare nuovi ambienti. Potrebbero non esserci sufficienti varianti genetiche all’interno della specie, o il tipo giusto di mutazione potrebbe non verificarsi – perlomeno in un certo lasso di tempo. Se questo si verifica, la specie è letteralmente “confinata” all’interno di una gamma già definita di fenotipi, strategie di sopravvivenza, comportamenti di accoppiamento, ecc. In altre parole, i vincoli genetici possono mantenere una specie così com’è.

I vincoli dello sviluppo si riferiscono al fatto che potrebbero verificarsi alcune mutazioni capaci, per esempio, di alterare la morfologia o le abitudini di vita di un organismo al punto da permettergli lo sfruttamento di una nuova nicchia; ma gli effetti di simili mutazioni potrebbero risultare in contrasto con il resto del piano della struttura corporea dell’organismo così come si è determinata attraverso lo sviluppo. Simili mostri sarebbero dunque eliminati dalla selezione naturale. Per esempio, in una popolazione di giraffe potrebbe sorgere un mutante con un collo ancora più lungo, cosa che permetterebbe teoricamente all’animale di raggiungere fronde ancora più alte. Se, però, il risultato si limitasse a questo, è probabile che il sistema circolatorio e respiratorio prodotti dal normale sviluppo di una giraffa, non si accorderebbero alla nuova situazione, ad esempio perché il cuore potrebbe non avere forza sufficiente a pompare il sangue fino alla testa. E’ probabile che i vincoli dello sviluppo definiscano certi limiti, e si presuppone che siano un mezzo potente per preservare gli organismi dal deviare troppo facilmente dal piano di base della struttura corporea.

I vincoli filogenetici, per quanto io ne sappia, sono in realtà una categoria spuria creata dalla due precedenti. Un vincolo filogenetico è definito come un “incidente storico”, che ha portato la specie su un particolare sentiero. Una volta lì, la specie ha semplicemente difficoltà a superare il proprio passato e a dare un indirizzo nuovo alla sua futura evoluzione. Dal momento che l’evoluzione è un processo storico, questo è perfettamente ragionevole. Ma quando ci chiediamo di che tipo di incidente storico si tratti, la risposta spesso cade in una delle altre due categorie di vincoli: genetici o dello sviluppo.

E ora dove andiamo?

Species are species are species. Per quanto possano dire gli scettici, esistono categorie naturali di organismi che possono essere viste, riconosciute, definite (entro certi limiti) e studiate. Da dove esse vengano e dove vadano, però, è ancora una questione totalmente aperta, come la lista dei siti web e i riferimenti bibliografici riportati di seguito dimostrano ampiamente. Per le menti curiose questa è un’opportunità sconfinata di scoprire e stupirsi. Buon viaggio!

Siti web consigliati

  • Biological Sciences Resources on the Web (http://bio444.beaumont.plattsburgh.edu/Biosciences.html)
  • The Paleo Ring: risorse sulla paleontologia (http://www.pitt.edu/~mattf/PaleoRing.html)
  • The Evolution and Population Genetics Data Base (http://wbar.uta.edu)
  • Tree-Base, un database su filogenesi e genetica (http://herbaria.harvard.edu/treebase/)
  • The Evolutionary Directory, per cercare il vostro biologo evoluzionista preferito (http://life.biology.mcmaster.ca/~brian/evoldir.html)
  • Site for Ecological Geneticists (http://funnelweb.utcc.utk.edu/~jestill/SIEGE/default.html)
  • The Population Genetics Club (http://www.geocities.com/CapeCanaveral/Lab/6572/pgchome.html)
  • Sci-Bio Evolution Page (http://weber.u.washington.edu/~jahayes/evolution/index.html)
  • Darwin Day: un completo sito sull’evoluzione e le sue ramificazioni (http://www.bio.utk.edu/botany/darwin/root.html)

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Traduzione di Flavia Castellano

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