Tutti diversi ma parenti

Esistono nella nostra specie confini netti fra gruppi omogenei e obiettivamente riconoscibili, o, in altre parole, esistono razze nella nostra specie? E, se sì, quali sono? La risposta più comune alla prima domanda è un sì più o meno incondizionato; la seconda, invece, definire quali siano le razze umane, crea qualche imbarazzo. George Armelagos ha calcolato che nel solo ventesimo secolo sono state pubblicate 14 proposte serie di classificazione razziale, escludendo cioè i tentativi di scienziati improvvisati che in qualche modo hanno raggiunto la gloria della pubblicazione. Ma anche fra gli studi seri esistono discrepanze, tanto è vero che il numero delle razze ipotizzate varia da 3 a 200. Insomma, l’impressione che le razze nell’uomo esistano e siano evidenti perde molta della sua chiarezza quando si tratta di definirne i confini. Il fatto è che non è facile studiare i nostri simili con lo stesso distacco con cui ci poniamo di fronte alle felci o alle rondini. Tutti quanti, scienziati e non, siamo condizionati dal complesso di informazioni, giudizi e pregiudizi che conviene per brevità chiamare cultura.

Ma resta il fatto che molte specie animali e vegetali sono indubbiamente suddivise in razze e sottospecie. Perché dovremmo essere diversi, e dove stanno i confini fra gruppi umani, ammesso che ci siano? Per cercare di rispondere conviene prima di tutto mettersi d’accordo su cosa si intenda per confini. Poi, dati alla mano, si potrà vedere se effettivamente ci siano, e dove. Fra parentesi, un progetto scientifico di questo tipo non era praticabile fino a qualche anno fa, per il semplice motivo che c’erano ben pochi dati. Per tutto il secolo scorso e buona parte di questo gli antropologi hanno dovuto accontentarsi di misurare le ossa, e calcolare angoli e rapporti fra misure scheletriche. Tutti caratteri che hanno sì una base biologica, ma risentono di fattori non ereditari, al punto che anche la somiglianza fra genitori e figli è piuttosto limitata. Un dato per tutti: nel giro di due generazioni, le caratteristiche craniometriche di diversi gruppi immigrati negli Stati Uniti sono diventate sostanzialmente uniformi; anche se le loro origini sono diverse, i nipoti, in media, si assomigliano fra loro più di quanto ciascuno non assomigli ai nonni. Dunque, il nostro aspetto fisico, la forma delle ossa come il colore della pelle, si presta poco e male a caratterizzare le popolazioni, perché va soggetto a cambiamenti rapidi dovuti a fattori ambientali, come la dieta, l’esposizione al sole, le attività fisiche svolte, eccetera. Non c’è da stupirsi se studi basati su questi caratteri abbiano dato risultati contraddittori.

Molto è cambiato, e in meglio, quando hanno cominciato a essere disponibili dati sui polimorfismi genetici, come gruppi sanguigni, proteine, e adesso direttamente sul DNA, cioè caratteri trasmessi secondo regole ben note da genitore a figlio. Gli zoologi parlano di razze se in una specie si riconoscono con minime ambiguità (in modo cioè che due ricercatori, con gli stessi dati, giungano più o meno alle stesse conclusioni) gruppi i cui individui differiscano fra loro molto meno di quanto non differiscano dai membri di altri gruppi. Per inciso, questa è la definizione di razza che troviamo nella Cambridge Encyclopedia. “Molto meno” è un termine piuttosto vago, ma ci permette di riformulare la domanda in forma più precisa: è vero che la nostra specie è suddivisa in gruppi con queste caratteristiche?

Il primo a cercare di rispondere è stato Richard Lewontin, che nel 1972 ha analizzato 17 gruppi sanguigni e proteine del plasma. Partendo da una classificazione convenzionale (sette razze), e confrontando ogni individuo con altri membri della stessa popolazione, con membri di popolazioni diverse della stessa razza, e con membri di razze diverse, Lewontin ha ottenuto delle stime che vale la pena di ricordare, perché sono rimastesostanzialmente immutate in tutti gli studi successivi. L’85 per cento della diversità umana, secondo queste stime, è rappresentata da differenze fra membri della stessa popolazione, mentre le differenze fra le razze considerate rappresenta meno del 7 per cento del totale, e la differenza fra popolazioni della stessa razza il rimanente 8 per cento. Nonostante questo studio sia stato oggetto di critiche, i suoi risultati sono stati ripetutamente confermati, usando proteine diverse, diverse tecniche statistiche, e, di recente, anche sulla base di una vasta analisi di 107 geni a livello del DNA. In quest’ultimo lavoro, le differenze fra razze sono un po’ più grandi, ma non arrivano all’11 per cento. La variabilità entro popolazioni viene confermata, con sorprendente precisione, all’84,4 per cento.

Cosa vogliono dire questi numeri? Prima di tutto, che persone appartenenti a gruppi diversi differiscono fra loro, dal punto di vista genetico, più di due membri della stessa popolazione. Non di tanto, però. Se poniamo pari a 100 la differenza genetica media fra due individui molto distanti, diciamo un eschimese e un pigmeo, la differenza fra due abitanti della stessa località (che non siano parenti, ovviamente) non sarà 10, come si potrebbe pensare, ma circa 85. Un altro modo per interpretare questi risultati è pensare che, se la nostra intera specie si estinguesse interamente a eccezione di un’unica comunità, nei pochi sopravvissuti resterebbe comunque presente la grande maggioranza, appunto circa l’85 per cento, dei nostri geni. Non c’è bisogno di test statistici sofisticati per vedere che le differenze fra gruppi razziali, comunque li si voglia definire, non sono significative, e sono, in media, ben più piccole di quelle presenti all’interno di ciascuna popolazione. Perciò non è vero che la variabilità genetica umana sia distribuita in maniera discontinua, e che, a parte pochi casi di ibridi, si possa assegnare ogni individuo a una razza ben definita.

In altre specie, come ho già detto, le cose stanno diversamente. Nei Pirenei ci sono popolazioni di lumache che differiscono fra loro dieci volte più di qualunque coppia di popolazioni umane. Viene da chiedersi perché le nostre popolazioni siano così uniformi. Qual è stato il complesso di eventi evolutivi che ci ha portato a questo punto? E’ una domanda fondamentale, e sebbene oggi si sappia molto più di quanto si sapesse solo dieci anni fa, le nostre conoscenze sono, necessariamente, abbastanza schematiche. Conviene perciò fare un passo indietro, e presentare brevemente i modelli principali di evoluzione umana proposti negli ultimi cinquanta anni. Sono tre, e li possiamo chiamare “del candelabro”, “multiregionale”, e “out-of-Africa”. Secondo il modello del candelabro la nostra specie si sarebbe suddivisa in gruppi ben separati circa 500 mila anni fa. Da ciascun gruppo, con pochi o pochissimi contatti, si sarebbero sviluppate le cinque razze attuali. Secondo il modello multiregionale, la separazione dei gruppi umani sarebbe altrettanto antica, ma gli scambi di individui, sarebbero stati frequenti. Infine, il modello out-of Africa propone che le popolazioni umane abbiano tutte avuto origine in Africa non più di 200 mila anni fa e espandendosi abbiano sostituito, con poca o pochissima mescolanza, altre popolazioni umane preesistenti.

E’ importante notare il ruolo diverso che, nei tre modelli, occupa un gruppo europeo, estintosi circa 30 mila anni fa: l’uomo di Neandertal. Nel modello del candelabro, i neandertaliani sarebbero un anello intermedio nell’evoluzione degli europei; in quello multiregionale sarebbero un gruppo che, sebbene distinto da quello dell’Homo sapiens propriamente detto, potrebbe essersi in qualche modo mescolato con esso trasmettendo parte dei suoi geni alle popolazioni europee contemporanee; nel modello out-of-Africa gli europei attuali sarebbero in relazione puramente geografica con i neandertaliani, ma non ne discenderebbero.

Lo studio, molto recente, di un tratto di DNA proveniente dalle ossa di un uomo di Neandertal permette di escludere che questo gruppo abbia fatto parte della linea evolutiva che ha portato all’uomo moderno. Il DNA neandertaliano ha caratteristiche inconfondibili, diverse da quelle di qualunque membro contemporaneo della nostra specie; si può stimare che i destini nostri e dei neandertaliani si siano separati circa 600 mila anni fa. Se si ripete lo stesso calcolo all’interno della nostra specie, supponendo che le differenze genetiche si siano accumulate a ritmo costante nel tempo, si arriva a stime che, a seconda dei casi, variano fra i 100 e i 150 mila anni. Dunque ci sono due elementi che fanno pensare a una genesi recente: l’età probabile della nostra specie e le ridotte differenze fra popolazioni. Dato che i reperti fossili dei nostri antenati sono in larga parte concentrati in Africa, si può concludere che le evidenze genetiche e paleontologiche concordano nell’indicare una nostra origine africana.

Se le cose stanno così, anche la forte somiglianza fra popolazioni umane trova una spiegazione: c’è stato troppo poco tempo perché; si sviluppassero delle differenze significative. Anche popolazioni che occupano regioni geografiche distanti discendono da pochi antenati comuni che, non molto tempo fa in termini evolutivi, vivevano insieme in qualche parte dell’Africa.

La lingua come barriera

Questo non vuol dire che siamo tutti uguali. E’ proprio in quel 15 per cento di variabilità genetica che rimane dopo aver sottratto l’85 per cento imputabile a differenze individuali, che si possono cercare i confini biologici fra le nostre popolazioni, capendo così almeno in parte la loro storia evolutiva. Se si rappresentano le caratteristiche genetiche delle popolazioni su una carta d’Europa, di regola le differenze sono più marcate fra popolazioni lontane che fra popolazioni vicine. Questa è la conseguenza di un ben noto principio della genetica evoluzionistica: località vicine tendono ad assomigliarsi perché si scambiano individui, località lontane o isolate tendono ad accumulare differenze, per puro effetto del caso. Dunque è la quantità di individui scambiata fra due popolazioni, o, in altre parole, la migrazione, a determinare quanto le popolazioni tenderanno a assomigliarsi. Ci sono alcune regioni fortemente differenziate, fra cui la Sardegna e la Corsica. In generale, però, è raro trovare gruppi ben distinti. In molti casi, come si vede in figura 1, ci sono aree di forte variabilità genetica disposte qua e là sulla mappa, che raramente formano un anello completo.

La corrispondenza fra differenziazione genetica e ostacoli fisici, come bracci di mare e catene montuose, conferma come l’isolamento sia uno dei fattori fondamentali che portano le popolazioni a sviluppare caratteristiche diverse. Ci sono anche zone di alta variabilità genetica (intorno ai Baschi e ai Lapponi, fra Ungheria e Austria e nel nord della Romania) che non si sovrappongono ad alcuna barriera geografica. In tutti questi casi le popolazioni in questione sono separate da un’altra barriera, meno evidente ma a quanto pare altrettanto forte: una barriera linguistica. In tutti e quattro i casi sopra citati, abbiamo una popolazione di lingua Indo-Europea, e una che parla una lingua di un’altra famiglia. Sembra di poter dire che, anche dove non ci sono ostacoli fisici al movimento degli individui, barriere culturali, di cui quelle linguistiche sono forse le più semplici da individuare, possano agire da fattori di isolamento. In molti casi, in Europa e altrove, i confini linguistici sono probabilmente stati un importante fattore evolutivo, che ha suddiviso la nostra specie, favorendo l’accumularsi di differenze.

Parenti ma diversi

Siamo partiti dalla domanda se ci siano o no confini biologici all’interno della nostra specie. Mi sembra che, in conclusione, si possa rispondere di sì, con la precisazione che questi confini non separano nettamente pochi gruppi ben distinti fra loro. Probabilmente, studiando un numero sufficientemente grande di geni, si potrebbero trovare differenze significative fra qualunque coppia di popolazioni. In questo senso, ogni popolazione è una razza. Ma il concetto tradizionale di razza, basato sull’idea che nella nostra specie si possano individuare pochi tipi fondamentali, è semplicemente errata. Dove l’isolamento, geografico o culturale, è stato forte esistono differenze genetiche più marcate, dove le popolazioni hanno avuto contatti le loro differenze sono più superficiali. Forse la frase che descrive meglio la nostra ambigua condizione di appartenenti a una specie in cui ci sono molte e evidenti differenze, e tuttavia nessun gruppo ben distinto dagli altri, è quella che ha dato il titolo a una bella mostra allestita di recente dal Musée de l’Homme di Parigi: Tous parents, tous differents. Siamo tutti un po’ parenti, e tutti un po’ differenti.

Bibliografia

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