Un caso filosofico

    In biologia, la definizione di specie è stata, e continua a essere, un problema così tenacemente presente da far legittimamente sostenere che in biologia non ne esista alcun altro altrettanto refrattario a soluzione. Definire la specie, però, non è un problema esclusivamente biologico: il concetto di specie si candida come caso emblematico della teoria della definizione in filosofia.

    Il problema della definizione è il problema della specie, che è stata tradizionalmente considerata esempio paradigmatico di genere naturale. La determinazione classica della natura della definizione risale ad Aristotele, il quale stabilì che la definizione si fa “mercé il genere prossimo e la differenza specifica”. Nell’ambito del pensiero classico, la specie appare come il concetto universale che traduce in sé l’essenza, e la procedura della definizione richiede l’individuazione, al di sotto e al di là del contingente e del “non essenziale”, della sostanza prima. Per introdurre ordine nella mutevolezza e nella diversità dell’esperienza, si impone l’uso di nozioni che abbiano il carattere della permanenza e della stabilità. La scienza deve vertere esclusivamente sull’universale, sul necessario e sul costante, cioé sul livello formale essenziale delle cose. Gli oggetti totalmente sottoposti all’accidentalità non sono suscettibili di analisi scientifica.

    Tramite il processo riproduttivo la specie gode di quella eterna permanenza che è negata all’individuo. Può quindi essere riconosciuta sia come oggetto del discorso scientifico che risponde a tutti i requisiti epistemologici sia come livello privilegiato di realtà (Vegetti,1971). D’altra parte però, secondo David Hull (1965), proprio la logica essenzialista della definizione avrebbe rappresentato l’ostacolo principale all’affermarsi di un autentico pensiero evoluzionistico, ritardando i progressi di varie discipline e in particolare della tassonomia. Infatti, anche dopo che le specie vennero nuovamente considerate reali, e le classificazioni naturali, in base al principio unificante e condiviso della teoria dell’evoluzione, sulla definizione di specie ha continuato a incombere lo “spettro dell’essenzialismo” e di una logica che, perseguendo l’universale, nega la possibilità di definire ciò che muta. Una contraddizione lampante, e quasi paradossale, contro la quale ancora si misurano le moderne scuole di sistematica, ciascuna impegnata a produrre classificazioni che non siano cataloghi puramente descrittivi di oggetti discreti, ma gerarchie articolate che riflettano e spieghino l’autentica storia dei gruppi di organismi.

    Dunque, la battaglia contro l’essenzialismo, “camicia di forza” della filosofia europea (Mayr 1982), si riaccende periodicamente nel dibattito post-darwiniano sulla specie, laddove il ruolo della variazione, della diversità, dell’individualità diventa il fenomeno fondante della natura vivente. Del resto, fu proprio l’attenzione di Darwin per le cosiddette variazioni accidentali a condurlo alla sua teoria dell’evoluzione. Con Darwin la ricostruzione delle filogenesi si sostituisce alla classificazione puramente descrittiva. Con Darwin la naturalezza e la realtà della specie, abbandonate le spiegazioni metafisiche, si fonda sui nessi genealogici.

    Eppure in Darwin i riferimenti all’arbitrarietà della specie sono molteplici, e le dicharazioni di indefinibilità del termine “specie” espresse in modo esplicito, tanto da essere egli stesso tacciato di nominalismo. Un’accusa, per così dire, “simmetrica” a quella di essenzialismo, e comunque altrettanto inconciliabile con il nucleo centrale di una teoria dove le specie sono considerate entità realmente esistenti in natura, individuabili e identificabili, e non certo classi formali costruite secondo criteri arbitrari e convenzionali, come vorrebbe il nominalismo.

    Ma qui forse sta uno dei nodi del dibattito, uno degli “equivoci” responsabili del suo perpetuarsi. Darwin non nega la realtà delle specie né la realtà di ciò a cui il termine si riferisce, nega semplicemente che possa esistere una qualsiasi definizione che possa essere soddisfatta da tutti i suoi referenti (Beatty 1985). L’arbitrarietà concerne dunque solo la categoria “specie” e non il taxon, ovvero il gruppo concreto degli organismi. Ecco il metodo tradizionale della definizione, stupendamente efficace per un mondo costituito da gerarchie inclusive di generi naturali, mostrare la sua inadeguatezza per caratterizzare specie in evoluzione graduale.

    L’incapacità di distaccarsi dalla concezione tradizionale della definizione come fine ultimo della tassonomia avrebbe creato, anche secondo Michael Ghiselin (1969), una grave confusione tra i sistematici che tendono ancora a credere di “definire” le specie anziché i loro nomi e ad interpretare come un difetto della classificazione l’impossibilità di una definizione rigorosa del nome di un gruppo. Di fronte al problema della determinazione delle specie “naturali”, non sempre è risultata evidente la distinzione tra definizione del nome attribuito ad un particolare livello della gerarchia classificatoria – la categoria “specie” – e l’identificazione concreta dell’unità biologica che esso designa – il taxon-specie – ovvero il gruppo reale di organismi relativo a quel livello della gerarchia classificatoria.

    Dopo Darwin, la storia naturale non restò a lungo priva di definizioni di specie. Alcuni tra i principali esponenti della New Synthesis – nonché della New Systematics, il nuovo indirizzo di studi tassonomici in grado di avvalersi delle esperienze della genetica, dei principi della variablità discontinua, dell’enorme massa di dati provenienti dalla citogenetica, demogenetica, biogeografia – fecero emergere le connessioni fra sistematica ed evoluzione, anche nel tentativo di riscattare lo studioso di sistematica dall’immagine fuori moda del catalogatore di museo, del pedante osservatore di minuzie e dettagli. Il loro principale obiettivo era la ri-definizione del concetto di specie, una definizione che fosse biologica e non tipologica, come “classe di oggetti” raggruppati sulla base di caratteristiche intrinseche e arbitrariamente scelte. Come fa notare Mayr, definire la specie in modo esclusivamente biologico rompe con tutte le tradizioni filosofiche. La specie è così un gruppo di popolazioni naturali i cui membri si incrociano tra loro, riproduttivamente isolato da altri gruppi simili. La specie è una comunità riproduttiva, un’unità ecologica e un’unità genetica. Essa viene definita relazionalmente, come, per esempio, nel caso della parola “fratello” (non si è fratello in base a certe proprietà intrinseche, ma solo in relazione a qualcun altro) (Mayr 1969).

    A differenza di quanto avviene per le semplici raccolte di oggetti, gli organismi non sono inclusi in un taxon perché si somigliano, ma si somigliano perché hanno una comune discendenza. Un nesso causale tiene insieme e spiega i raggruppamenti, e questo nesso è la comunanza genetica. La soluzione proposta aspira a porsi come superamento di entrambe le alternative tradizionali, quella tipologica e quella nominalista. Eppure, benché venga presentata come una definizione di tipo operazionale, non è riuscita a sottrarsi alle critiche. Prima fra tutte quella sui suoi effettivi margini di applicazione (come regolarsi per le specie asessuali?), ma anche l’accusa di soggettivismo e, paradossalmente, quella di essenzialismo, per la sua insistenza sulla comunanza genetica.

    Seguendo strategie opposte, almeno altre due scuole di sistematica sono intervenute nel tentativo di risolvere le questioni lasciate aperte dalla definizione biologica. Da una parte i fenetisti, rifiutando ogni legame tra classificazione e teoria dell’evoluzione, hanno perseguito il miraggio della oggettività assoluta, dell’uso esclusivo di caratteri osservabili e quantitativamente correlabili attraverso il ricorso a elaborazioni statistiche al computer. Dall’altra i cladisti, paladini di una “sistematica puramente storica” (Griffith, 1973), si sono impegnati in una ricostruzione rigorosa di una filogenesi cercando l’origine monogenetica dei gruppi sulla base della prossimità cronologica dall’antenato comune (recency of common ancestry). La specie definita cladisticamente è “l’insieme degli organismi tra due eventi di speciazione” (Ridley 1989). Pertanto, il gruppo cladistico non ha “essenze” di sorta, dal momento che i caratteri possono sempre cambiare nel corso dell’evoluzione e, dunque, “definiscono” i gruppi solo in modo contingente nello spazio e nel tempo, secondo la genealogia.

    Il dibattito non è affatto esaurito, né nell’ambito degli studi classificatori né in quello dell’analisi critica sullo statuto scientifico della biologia in quanto scienza storica, ovvero di una scienza che intende spiegare un mondo strordinariamente vario la cui diversità non si assoggetta ai rigidi schematismi e alle statiche categorizzazioni propri delle cosiddette “scienze esatte”.

    LASCIA UN COMMENTO

    Please enter your comment!
    Please enter your name here