C’era una volta il mare d’Aral

Il quarto specchio d’acqua interno del mondo si sta prosciugando: il mare di Aral presto non esisterà più. La sua superficie è ridotta alla metà e il suo volume ad un terzo. Ciò è stato causato da tecniche agricole, che molti esperti hanno definito “irrazionali”, e sprechi incontrollati d’acqua che hanno lasciato più di 1,4 milioni di abitanti della regione del Karakalpak, nell’Uzbekistan, a fronteggiare uno dei più gravi disastri ambientali di tutti i tempi. Ma in loro aiuto è arrivata la Banca Mondiale, che ha deciso di finanziare un programma di 100 milioni di dollari per cercare di migliorare l’acqua potabile, le strutture sanitarie, comprare autoambulanze, autobotti. Inoltre è allo studio il finanziamento, con centinaia di milioni di dollari, di nuove pratiche agricole, come quella che miscela acqua dolce e acqua salata. L’impegno della Banca Mondiale si aggiunge a quello degli Stati Uniti, che hanno deciso di finanziare con 21 milioni di dollari un sistema di cloronizzazione dell’acqua di Muynak. Il porto di questa città era un tempo una prospera stazione di pesca e commerci; ora la sua costa è arretrata di 80 chilometri dalle rive del mare di Aral e in alcuni punti arriva fino ai 120 chilometri. La metà dei suoi 28 mila abitanti è finita in rovina e si è vista costretta a lasciare la zona.

Tutto iniziò quando, nei primi anni Sessanta, l’Unione Sovietica decise di coltivare cotone nei pressi del lago. Ma gli agenti chimici usati in abbondanza e i canali costruiti per irrigare le coltivazioni, a lungo andare hanno messo in crisi l’ecosistema del luogo. Un esempio? I due fiumi Syr Darya e Amu Darya, che alimentavano con le loro acque il mare di Aral, sono stati deviati per alimentare 13.000 chilometri di canali, 12.000 chilometri di tubi e 26 grandi contenitori d’acqua per l’irrigazione. Il letto del fiume Amu Darya è stato sbarrato da una diga fuori della città di Muynak ed è ormai ridotto a 300 metri: niente rispetto ai 900 di un tempo. La pesca nella zona si è drasticamente ridotta. L’unico tipo di pesce sopravvissuto, e che le donne del luogo riescono ancora a vendere al mercato, è il pesce persico.

Ma proprio un anno fa, nel 1997, si è avuta la peggiore crisi idrica degli ultimi anni, che ha compromesso quasi tutti il raccolto del riso. Di conseguenza, tutte le iniziative industriali avviate negli ultimi anni hanno avuto il colpo di grazia. I pochi prodotti che la regione può ancora produrre sono la liquirizia, il marmo, il sale e un cotone di scarsa qualità, perché il filato, nella lavorazione, si spezza continuamente, provocando danni notevoli alle macchine industriali.

Anche gli ultimi dati che riguardano la fauna ittica sono spaventosi. Delle 11 specie di crostacei che vivevano nel mare d’Aral nel 1960, oggi ne sopravvive solo una, che ha stoicamente resistito alla crescente salinità delle acque. In questo ecosistema vivono così in tutto 20 specie di pesci, 195 di invertebrati, 12 specie di alberi e 82 specie di piante basse. Anche se, come aggiungono gli esperti, le informazioni non sempre sono attendibili perché solo dal 1960, con l’avanzare del disastro ecologico, sono cominciati gli studi approfonditi su questa sfortunata regione.

Il disastro ambientale non risparmia nemmeno gli abitanti dei paesi circostanti: per capirlo, basta considerare i tassi di mortalità infantile, doppi rispetto a quelli medi del centro Asia, e alla diffusione senza precedenti di tumori alla gola, epatiti e infezioni virali. La salinità dell’acqua “potabile”, l’unica disponibile, è passata da 10 a 30 grammi per litro. Anche se, sempre secondo gli esperti, nessuno conosce esattamente i rischi sanitari a cui la popolazione è esposta da anni, a causa di pesticidi, dell’inquinamento industriale e, come se non bastasse, dei test di armi biologiche effettuati al largo di quello che un tempo era un vero e proprio mare.

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