Un radarper Indiana Jones

La caccia ai tesori nascosti del mondo può iniziare anche dal cielo. Infatti è stato proprio grazie a un radar aereo della Nasa, che è riuscito a penetrare la fitta foresta tropicale, che gli archeologi inglesi hanno ritrovato resti di un’antica città accanto ad Angkor, nella Cambogia del nord. Fino a oggi la zona, occupata dai militari, era stata abbandonata dagli studiosi e molti dei suoi misteri erano rimasti celati dalla densa vegetazione. La scoperta è importante. Perché apre nuove vie di studio all’archeologia e perché il ritrovamento del radar progettato dal Jet Propulsion Laboratory della Nasa (Pasadena, California) probabilmente cambierà la cronologia dell’intero complesso archeologico di Angkor. Fondata forse nel IX secolo dopo Cristo, la città fu capitale dell’impero Khmer e nel suo momento di maggior splendore ospitò una popolazione di un milione di abitanti. Ma il luogo è famoso nel mondo soprattutto per i suoi mille templi che coprono un’area di 250 chilometri quadrati, tra cui spicca l’immenso tempio-cittadella di Angkor Vat, costruito nel 1150 dopo Cristo. Galileo ha intervistato l’archeologa inglese Elisabeth Moore, direttrice del Dipartimento di Arte e Archeologia della scuola di Studi orientali e africani all’Università di Londra, che dopo aver ricostruito insieme agli scienziati della Nasa la nuova mappa topografica della zona, si è recata sul posto affrontando mine, foreste e strade disastrate.

Professoressa Moore, perché il radar della Nasa è stato fondamentale per ricostruire la mappa di Angkor e trovare queste rovine nascoste?

“Le immagini riprese dal radar hanno messo in evidenza aspetti che non si riuscivano a identificare dal terreno. Grazie ai dati pervenuti da tre antenne a onde lunghe abbiamo ricreato insieme agli scienziati una nuova mappa. Questa è stata elaborata con la tecnica della radar-interferometria, che combina due immagini per creare al computer una mappa tridimensionale. La topografia del sito evidenziata dal radar permette di focalizzare l’attenzione su aspetti che prima ci erano sfuggiti, alcuni proprio nel cuore della città. Così siamo riusciti a distinguere i reperti archeologici già conosciuti da quelli mai rilevati e a elaborare una mappa, addirittura più accurata di qualsiasi mappa degli Stati Uniti, dell’area intorno ad Angkor”.

Lei si è recata ad Angkor per verificare i dati radar. Ma qual é stato il segno topografico che dal computer ha attratto subito la sua attenzione?

“E’ stata una collinetta circolare sul perimetro del famoso tempio Angkor Vat. I precedenti rapporti archeologici, gli ultimi risalgono al 1904-1911, notavano solo due templi e non menzionavano la forma circolare della collinetta. Però le iscrizioni ritrovate all’inizio del secolo indicavano che alcuni dei templi vicino ad Angkor Vat erano dedicati al dio Vishnu. Ma gli archeologi dell’epoca non diedero alcuna importanza alle iscrizioni e non cercarono questi templi. Invece questo è prorio l’aspetto più significativo: infatti resti del tempio che abbiamo trovato sono anteriori al XII secolo, cioè sono più antichi di Angkor Vat. Probabilmente la zona era già oggetto di culto 300 anni prima. E questo cambia radicalmente la cronologia di Angkor accettata finora”.

I Khmer erano famosi per i raffinati sistemi idrici che sapevano costruire. La mappa mette in evidenza nuovi percorsi d’acqua?

“Queste nuove mappe ci hanno mostrato molti aspetti idrologici sconosciuti e hanno evidenziato la loro funzione nei rituali e nella vita quotidiana della popolazione Khemer. Angkor è famosa per la bellezza dei suoi templi, ma la grandezza della città sta nella moltitudine di costruzioni collegate da vie d’acque. I re Khmer dedicavano i templi sia a divinità induiste che buddiste. Il significato di questa usanza si può ricercare nella venerazione di spiriti ancestrali che assicuravano la fertilità della terra. La gestione dell’acqua era essenziale, sia per il controllo delle piene durante le piogge monsoniche, sia per le scorte idriche nella stagione secca. Ciò comportò la costruzione di fossati, dighe, canali, serbatoi e bacini. Il maggiore di questi bacini ha una lunghezza di 5 miglia, e la sua funzione rimane oggetto di dibattito archeologico”.

Un altro punto importante, oltre ai ritrovamenti, è la nuova collaborazione che vede uniti nelle ricerche gli scienziati e gli archeologi. Lei cosa ne pensa?

“Certo è importante perché apre nuove percorsi di ricerca. Anche se la continua verifica sul terreno sarà sempre necessaria. Attualmente sia io che gli scienziati della Nasa siamo impegnati a formulare programmi per far conoscere agli studenti di archeologia il nuovo modo di indagare i siti utilizzando le mappe riprese dal cielo e le tecnologie dello spazio”.

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