Acqua e fuoco d’Amazzonia

E’ il peggiore incendio mai registrato. Più grave di quello che lo scorso anno ha devastato il Borneo. E’ quello che dai primi del 1998 sta inghiottendo la foresta amazzonica brasiliana, nello stato di Roraima, al confine con Venezuela e Guyana. Le fiamme avanzano inesorabili da tre mesi, un tempo sufficiente perché il “fuoco verde”, che si propaga nel primo strato di flora tropicale senza arrivare direttamente alle cime degli alberi ad alto fusto, distruggesse irrimediabilmente una porzione di foresta pari al Lazio e alla Toscana messe insieme. E un territorio grande quanto l’Italia continentale è ancora sotto assedio. I focolai accertati sono più di duemila, il più grande dei quali si estende lungo un fronte di quasi 220 chilometri. “Ci troviamo di fronte ad una catastrofe inedita nel mondo”, sostiene Walter Franco, responsabile delle Nazioni unite per le operazioni di soccorso. Tanto inedita che il governo di Brasilia ha persino “richiamato in servizio” due sciamani, noti per l’infallibilità della danza della pioggia. Pioggia che è arrivata, anche se non si può ancora dire se sarà sufficiente ad avere ragione del grande fuoco. Ma quali sono le armi scientifiche per arrestare le fiamme? Galileo lo ha chiesto a Nicola Salvati, funzionario della Protezione civile ed nella prevenzione e la lotta agli incendi.

Quali sono le caratteristiche dei grandi incendi, come quello che in Amazzonia sta divorando una regione vasta più o meno quanto l’Italia?

“I grandi incendi come quelli del Borneo o questo dell’Amazzonia sono caratterizzati dalla enorme quantità di legno in gioco, e dal fatto che la zona colpita è impenetrabile, e dunque è difficile accedere al cuore dell’incendio con i mezzi pesanti. Spegnere materialmente questi incendi è praticamente impossibile, perché non è pensabile utilizzare enormi quantità di agenti chimici ritardanti e acqua per aree così immense. E spesso bisogna lasciarli in balia degli agenti atmosferici. In genere si lavora esclusivamente con la creazione di grandi viali tagliafuoco, creati con bulldozer e caterpillar, e disboscando parte dei fusti, in modo da circoscrivere e limitare l’area interessata dalle fiamme. Contemporaneamente, con il disboscamento si riescono a creare dei varchi di accesso ai mezzi pesanti”.

Insomma, si spera soprattutto nell’arrivo della pioggia, magari invocandola con le danze sciamaniche?

“Può sembrare paradossale, ma è così. In certi casi, e quello amazzonico è fra questi, solo con l’arrivo di grandi quantità di acqua è possibile ridurre notevolmente la violenza delle fiamme. In Brasile, in particolare, la situazione è resa ancor più difficile dalla non proprio eccelsa organizzazione della Protezione civile: il coordinamento fra le varie forze è quasi inesistente, e quindi c’è una dispersione di risorse umane e materiali. Spesso poi l’addestramento del personale non è completo e sufficiente per fronteggiare situazioni difficilissime come questa. E quindi, se sommiamo questi due fattori “organizzativi” ai primi due oggettivi, ci rendiamo conto che bisogna affidarsi alla clemenza delle piogge”.

Neanche i mezzi aerei riescono a essere di aiuto?

“Sì, ma in modo marginale. Quando l’incendio è al culmine non c’è massa d’acqua che tenga, perché le temperature diventano altissime e l’area interessata è troppo estesa per essere investita da una quantità d’acqua sufficiente. Nelle zone già disboscate è più facile ottenere risultati, ma esistono dei limiti oltre i quali gli aerei non riescono ad andare”.

Quali possono essere le conseguenze sull’ecosistema di un incendio così grande?

“Alcuni ambientalisti sostengono che la natura abbia inaspettate capacità di ripresa. Un esempio lo troviamo nell’incendio che, qualche anno fa, colpì il parco di Yellowstone, negli Stati Uniti. Sembrava una situazione irreversibile, drammatica, ma già dopo poco tempo le piante hanno cominciato a rigenerarsi. In effetti, da sempre queste grandi foreste vengono colpite da incendi provocati da cause naturali, come un fulmine, e nel corso di decine di milioni di anni hanno sviluppato delle capacità di difesa e di ripresa. Alcuni ambientalisti arrivano quindi ad affermare che, nel caso di un incendio “naturale” l’uomo non dovrebbe intervenire per circoscrivere le fiamme, poiché potrebbe essere ecologicamente controproducente”.

In Amazzonia, però, le cause dell’incendio non sembrano essere naturali. Pare invece che i primi focolai siano stati provocati dagli agricoltori e dai proprietari terrieri…

“Anche se ad appiccare il fuoco è stato l’uomo, le fiamme si sono poi propagate velocemente su un’area molto estesa. Questo significa che ci sono condizioni climatiche, di siccità e di temperatura, favorevoli all’avanzare del fuoco nel sottobosco. Condizioni tali che anche un innesco naturale, un fulmine appunto, avrebbe potuto scatenare il disastro”.

In Italia sta per arrivare l’estate, e con la stagione secca arriveranno anche i primi incendi. Quest’anno cosa dobbiamo aspettarci?

“Inutile dire che le condizioni delle montagne e dei boschi italiani sono fondamentalmente diverse da quelle dell’Amazzonia. Per esempio le strade vicine o interne ai boschi sono in genere abbastanza grandi da permettere l’arrivo dei mezzi pesanti necessari. Tuttavia, anche da noi il tipo di intervento per lo spegnimento degli incendi è lo stesso: tagliare gli alberi, cioè disboscare, e successivamente cospargere l’area di agenti ritardanti e acqua. Purtroppo anche il nostro paese soffre un po’ dell’insufficienza del coordinamento tra le diverse forze, che avrebbero invece bisogno di un unico centro di comando. Ma la lotta e la prevenzione contro gli incendi è prima di tutto un fatto culturale: tutti devono capire l’importanza e il valore dei boschi. Purtroppo ci sono ancora zone in Italia in cui gli incendi bruciano per giorni prima che qualcuno dia solo l’allarme alle autorità…”.

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