La guerra dei reperti

Torna in auge l’archeologia subacquea. E l’attività si concentra soprattutto nel Mediterraneo, mare che da sempre offre ai ricercatori col boccaglio (ma anche ai moderni “pirati” senza scrupoli) dei tesori straodinari. Tutto merito del kolossal Titanic? Gli addetti ai lavori risponderebbero “assolutamente no”, ma di certo il film sul naufragio del transatlantico ha stimolato l’interesse dell’opinione

pubblica per l’archeologia subacquea e le sue tecniche di indagine (tutti noi ora sappiamo dell’esistenza di quei robot-sonda guidati da mini sommergibili tramite un cordone ombelicale, ultima frontiera della ricerca in alti fondali). Ha fatto sì che notizie quali quella del rinvenimento della statua in bronzo sul canale di Sicilia o dell’imminente accordo di collaborazione tra il Ministero dei Beni culturali e la Marina militare italiana (sarà siglato a metà maggio) ricevessero grande attenzione. Ha infine reso noto a tutti noi il nome di Robert Ballard, lo scopritore del transatlantico, ma anche colui che l’estate scorsa con un sofisticatissimo sommergibile nucleare ha battuto a tappeto il canale di Sicilia alla ricerca di tesori sommersi. E di certo non per lasciarli poi nel bacino del Mediterraneo. Se il satiro in bronzo è stato “salvato” dal “predone” Ballard, sono purtroppo innumerevoli le opere d’arte rinvenute in passato nelle acque italiane da sub senza scrupoli e poi imbarcate clandestinamente per lidi d’oltreoceano. Un esempio per tutti: il bellissimo bronzo dell’Atleta di Fano, ora al Getty Museum di Malibu.

Tuttavia il nome di Ballard non è associato solo al pericolo che il Mare Nostrum venga depredato dei suoi tesori sommersi. In discussione sono soprattutto il suo metodo di indagine e la legittimità del suo setacciare liberamente i fondali. La scorsa estate le televisioni di tutto il mondo, e ora un articolo su National Geographic di aprile, ci hanno mostrato il braccio meccanico di un robot che, stravolgendo ogni riferimento stratigrafico (la più elementare regola dello scavo archeologico), prelevava anfore dal sito di un antico naufragio per deporle in un enorme cesto.

Vanificando in questo modo la possibilità di analizzare i relitti e ricavarne preziose informazioni sui commerci e sulle tecniche navali nell’antichità. E contravvenendo alle principali direttive della ricerca archeologica che propendono per la conservazione in situ e il ricorso alla procedura traumatica e irreversibile dello scavo solo in casi di assoluta necessità. “Ma quale necessità c’era di portare alla luce qualche anfora in più, quando i magazzini dei nostri musei ne sono già pieni?”, si chiede Piero Alfredo Gianfrotta, titolare della cattedra di Topografia antica e docente di archeologia subacquea all’Università della Tuscia di Viterbo. La risposta non tarda a venire: “Credo che tutta l’operazione di Ballard sia servita a pubblicizzare le sofisticate attrezzature da lui impiegate. Ma, soprattutto, qui c’è in ballo la possibilità di sfruttare liberamente le acque internazionali. E’ un problema spinosissimo”.

Erano dunque vani, professor Gianfrotta, i tentativi della Sovrintendenza di Trapani di fermare Ballard?

“Certo. Le convenzioni internazionali – mi riferisco in particolare alla conferenza delle Nazioni unite di Montego Bay del 1982 – pongono a 24 miglia dalla costa il limite entro cui uno stato può esercitare potere territoriale in merito al patrimonio culturale sommerso. Oltre, il mare è di tutti, e tutti possono agirvi indisturbati. Più volte tuttavia, negli ultimi anni, soprattutto all’interno dell’Unione europea, è emersa la necessità di stabilire alcune regole. Questo soprattutto riguardo al Mediterraneo, ricco come nessun altro mare di relitti naufragati in più di tremila anni di storia. Ma bisogna ricordare che la tutela delle acque internazionali non riguarda solo i beni culturali. Anzi, questi vengono per ultimi, dopo i ben più importanti interessi politici, economici, militari. E’ per questo che le soluzioni tardano a venire”.

Non si potrebbe stabilire regole solo per la tutela dei beni storici sommersi?

“Purtroppo in mare nulla è controllabile, non è mai possibile sapere per certo quali interessi spinga un’imbarcazione a solcare i mari. Ogni regola, quindi, deve necessariamente essere di carattere generale. E qualche tentativo, a livello europeo, è stato fatto e si sta facendo. Soprattutto a partire dalla fine degli anni ‘80, da quando cioè, grazie alle innovazioni tecnologiche, è stato possibile effettuare ricognizioni accurate su larga scala ad alte profondità. Dal 1992 sono stati organizzati ben quattro incontri a Malta (l’ultimo è del novembre 1997), finalizzati soprattutto a raggiungere un accordo tra i paesi rivieraschi. I vari protocolli firmati miravano per l’appunto a riconoscere i beni culturali sommersi (in acque sia nazionali che internazionali) come patrimonio dell’umanità, a proporre misure per la loro tutela e per la regolamentazione della ricerca scientifica. Indicazioni operative – continua Piero Alfredo Gianfrotta – sono venute dal convegno internazionale di Ravello del 1993, dove archeologi e diplomatici di tutta Europa hanno disegnato una normativa comune. In breve, si è ribadita la necessità di rispettare la sovranità nazionale nelle acque territoriali (es. il paese che desidera effettuare ricerche nelle acque di un altro paese, non solo è tenuto a prendere accordi con le autorità competenti, ma anche a lasciare in situ gli eventuali ritrovamenti) e di estendere il principio a quelle internazionali. Oramai la collaborazione è buona regola tra la maggior parte dei paesi europei. Soprattutto i francesi (che oggi dividono con gli americani il primato nella ricerca ad alte profondità) hanno sempre cura di informare delle loro ricerche i paesi interessati e di adottare rigorose metodologie di ricerca”.

Gli europei dunque si sentono in qualche modo vincolati a norme di correttezza…

“Si e no. I protocolli faticano ad assumere la forma di legge, anche se credo che una soluzione in materia non tarderà a venire. Sono ancora troppi, tuttavia, i nodi da sciogliere e gli interessi da salvaguardare. Gli stati rivieraschi tendono ad allargare sempre più la propria sovranità riducendo gli spazi residui di acque internazionali. Mentre quelli che non fanno parte del Mediterraneo, Stati Uniti in testa, faticano ad accettare una visione così limitante. Le bravate di Ballard di fronte alle acque siciliane sono forse anche un messaggio all’Europa, una specie di dimostrazione di forza. L’archeologia sembra in questo caso una scusa per ribadire l’opposizione a qualsiasi tentativo di controllo delle acque internazionali”.

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