L’oro delle steppe

“Grifoni custodi dell’oro”, così Erodoto chiamava quelle popolazioni che vagavano per le steppe a est degli Urali e del Mar Caspio, nel territorio che corrisponde all’odierno Kazakhstan. E non aveva torto, visto che un misterioso principe Saka del V-IV secolo avanti Cristo è stato ritrovato nella sua tomba interamente vestito in oro, la scoperta più eclatante degli ultimi decenni in Kazakhstan. E’ appunto l’Uomo d’oro che dà il titolo alla mostra allestita a Palazzo Te a Mantova dal 25 aprile al 26 luglio prossimi e che presenta una panoramica della cultura delle steppe kazakha in quasi duemila anni di storia, dall’età del bronzo alle grandi migrazioni. Sono circa 600 pezzi, che la maggior parte non avevano mai varcato i confini della ex Repubblica sovietica (catalogo Electa).

Per la prima volta in Europa si potranno dunque ammirare la giacca rossa del principe Saka, tutta rivestita di placche in oro, la sua cintura, la spada e il pugnale con pietre preziose incastonate, ma soprattutto il suo cappello. “E’ questo il pezzo più importante”, spiega Chiara Silvi Antonini dell’Università di Roma, curatrice della mostra assieme a Grigore Arbore Popescu del Consiglio nazionale delle ricerche, “come nella cintura e nel pugnale, anche le placche d’oro del copricapo sono modellate con forme di animali (soprattutto cervidi e belve feroci), somma testimonianza di quell’arte animalistica delle steppe utilizzata dai nomadi per esprimere le proprie emozioni ma anche la propria concezione del mondo. Infatti il cappello è a punta e diviso in tre fasce, tutte con decorazioni di animali. Questo ci ha spinto a supporre che questi nomadi già credessero in un universo tripartito, a capo del quale vi era il signore guerriero”.

Nei grandi tumuli o kurgan, le sepolture di circa 20 metri di diametro dei capi guerrieri, venivano sepolti anche servi e concubine e numerosi cavalli (a volte persino 30 o 40), con preziosissimi finimenti. Oltre a rappresentare la potenza del principe, i cavalli erano anche il simbolo della lotta quotidiana per la sopravvivenza nelle steppe. E sono proprio le migliaia di sepolture rinvenute in Kazakhstan a tramandarci l’arte e la cultura di questi popoli nomadi che, vagando nelle steppe, lasciarono poche altre tracce del loro passaggio. Tra queste alcuni testi scritti: soprattutto fonti classiche, persiane e cinesi. Il quadro che ricaviamo prende avvio dall’età del bronzo, quando gli insediamenti erano ancora piuttosto stabili. Poi, ci sarà solo il nomadismo, e il Kazakhstan costituirà il grande bacino da cui partiranno tutte le popolazioni che giungeranno, con intenti non proprio pacifici, in Europa come in Iran e a est, in Cina.

Primi fra tutti i Cimmeri, forse gli autori dei primi petroglifi, le scene scolpite sulla roccia, in siti che probabilmente costituivano passaggi obbligati per le popolazioni in movimento. Poi, tra l’VIII e il III secolo avanti Cristo, le tribù della grande famiglia iranofona (Sciti, Saka e Sauromati), dominatori di un territorio vastissimo che si estendeva dai confini della Cina al Mar Nero. A cavallo del millennio saranno padroni delle steppe Sarmati e Unni. I primi, produttori di meravigliosi gioielli in oro e pietre dure, ricchi di influssi ellenistici, partici e cinesi; i secondi tristemente famosi per le distruzioni che hanno portato in tutta Europa. Ma anche le steppe saranno invase, tra il V e il VII secolo dopo Cristo, da Chioniti, Kidariti, Eftoliti e Turchi. A partire da quel periodo la cultura nomade si avvia verso il declino, e cominciano ad affermarsi le prime entità statali autonome. E’ l’epoca dei misteriosi balbaly, i grandi monoliti antropomorfi in pietra disposti attorno ai kurgan.

“La mostra di Mantova vuole proprio evidenziare come i nomadi delle steppe abbiano agito da trait d’union tra l’Europa, i popoli iranici e il vasto impero cinese”, chiarisce Grigore Arbore Popescu, “vogliamo far capire quali importanti effetti abbiano provocato questi spostamenti. Per esempio, sono stati proprio i nomadi delle steppe, giunti in Europa all’epoca della caduta dell’Impero romano, a produrre nei secoli dal VI all’XI dopo Cristo quella accelerazione senza la quale la storia europea oggi sarebbe totalmente diversa”.

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