Manicomi, addio?

La data fatidica è appena passata: il 31 marzo 1998 era infatti il termine ultimo fissato dalla legge 449 (del 27 dicembre 1997) per il definitivo smantellamento degli ospedali psichiatrici e la realizzazione delle residenze territoriali alternative. Eppure, a vent’anni dall’approvazione della famigerata “legge 180”, quella che ha cambiato la politica di assistenza psichiatrica in Italia, siamo ancora lontani dalla sua completa applicazione. Le strutture che dovrebbero sostituirsi ai manicomi – le comunità terapeutiche, le comunità alloggio, le case famiglia e le case albergo – sono ancora troppo poche. E gli ultimi ospiti dei vecchi ospedali psichiatrici, circa ventimila, sono ancora in attesa di essere trasferiti nei nuovi alloggi. Galileo ha chiesto l’opinione a Bruno Tagliacozzi, psicoterapeuta del Centro Italiano di Psicologia Analitica (Cipa), e autore del libro “Scene da un manicomio”, in questi giorni in libreria per le Edizioni Scientifiche Magi.

Professor Tagliacozzi, quanti sono gli ospedali psichiatrici ancora attivi in Italia?

“La “legge 180” prevedeva la costruzione di strutture territoriali alternative per arrivare alla chiusura di tutti i manicomi. Ma non possiamo illuderci: molti di questi istituti chiuderanno i battenti solo quando morirà l’ultimo ricoverato. Nell’Italia settentrionale la situazione è meno drammatica, perché sono state create numerose strutture sostitutive. Nel meridione, invece – penso per esempio alla Sicilia – non ve n’è praticamente traccia. E anche nelle regioni centrali la situazione non è delle migliori. L’esempio del Lazio è illuminante: a Guidonia, nei pressi della capitale, esiste ancora un ospedale psichiatrico che ospita tra i quattrocento e i cinquecento degenti. Insomma, è mancata una vera politica di smantellamento di questi istituti. Il risultato è che al 31 marzo 1998 alcuni manicomi sono ancora in piena attività”.

Ma quali sono le strutture alternative all’ospedale psichiatrico?

“La normativa prevedeva la creazione di strutture territoriali come le cosiddette Residenze Sanitarie Assistenziali (Rsa). Un’altra unità alternativa è la casa-famiglia, un appartamento di proprietà delle aziende sanitarie locali nel quale possono vivere insieme dalle tre alle sei persone. Ovviamente tutti i pazienti sono controllati dai medici e dagli psichiatri, ma viene lasciata loro una certa libertà di movimento: con i soldi che percepiscono dallo Stato, hanno la possibilità di gestire in modo autonomo la casa, dividendosi i compiti e organizzandosi la giornata.Poi, possono anche uscire con i parenti e ricevere visite”.

Eppure in alcuni casi è proprio il paziente a non voler lasciare l’ospedale…

“Questa è quella che chiamiamo la “sindrome istituzionale”. E’ naturale che dopo aver passato venti o trent’anni in una struttura manicomiale, i pazienti si sentano in qualche modo protetti, perché quella è ormai diventata la loro unica casa. E’ strano vedere questo tipo di paziente, quando si aprono le porte dell’istituto la mattina affinché si possano fare delle passeggiate, avvicinarsi piano, con diffidenza, all’uscita. Ma queste sono storie tipiche dei vecchi manicomi, situazioni nate per colpa di una struttura segregante e spersonalizzante, nella quale era facile entrare e impossibile uscire”. In questi ultimi mesi è stato riproposto il dibattito sull’utilità della terapia a base di elettroshock. Lei cosa ne pensa?

“Effettivamente, in alcune cliniche private quella dell’elettroshock-terapia è ancora una strada molto battuta. Ed è una terapia che annovera diversi sostenitori, soprattutto nel trattamento di malattie come la schizofrenia. E infatti nel mio libro Adriano, l’infermiere psichiatrico che ha lavorato per più di trent’anni al manicomio romano di Santa Maria della Pietà, racconta come in quella struttura l’elettroshock venisse applicata a tappeto. Eppure, tra tutte le migliaia di persone sottoposte a quel trattamento, Adriano ricorda solo due casi in cui l’elettroshock aveva portato dei miglioramenti. E probabilmente, con altri tipi di cure i due pazienti avrebbero raggiunto lo stesso risultato”.

Il suo ultimo libro parla proprio dell’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà, il più grande d’Europa. Quale sarà il futuro dei pazienti ancora ricoverati in questa struttura?

“Il manicomio è stato chiuso da tempo. Come struttura burocratica e sanitaria non esiste più. Alcuni padiglioni ospitano ancora un centinaio di persone – un tempo erano tremila – ma sono stati trasformati in residenze sanitarie assistenziali, mentre alcuni appartamenti accolgono una ventina di pazienti. E ora stiamo valutando la possibilità di trasferire quelli rimasti entro qualche mese. Il problema è che bisogna interrompere definitivamente il legame tra i pazienti ricoverati e l’ex ospedale psichiatrico. Ma questo senza distruggere il manicomio. Perché l’unico modo di evitare una nuova “manicomialità” è quello di non cancellare il passato, bensì di smontarlo pezzo per pezzo, e lasciarne così una testimonianza storica”.

Cosa sarà allora dei trentaquattro padiglioni del Santa Maria della Pietà?

“Probabilmente alcuni di questi torneranno ad essere delle strutture di accoglienza per i pellegrini durante il Giubileo, e dopo l’anno santo saranno trasformati in Ostello della gioventù. D’altra parte, non dobbiamo dimenticare che il Santa Maria della Pietà è nato nel 1548 proprio in occasione dell’anno santo, per accogliere i pellegrini che arrivavano a Roma. Altri padiglioni saranno invece adibiti ad ospitare i servizi sociali o le associazioni culturali, mentre un padiglione diventerà un museo”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here