Lo scoop di Hubble

È la prima immagine di un pianeta esterno al sistema solare. Il fotografo, se così si può definire, è il telescopio spaziale Hubble. Orbitando intorno alla Terra, riesce a osservare fenomeni altrimenti inaccessibili agli strumenti che si trovano al suolo e che sono disturbati dalla presenza dell’atmosfera. La scoperta è stata casuale, come rivela l’autrice Susan Terebey dell’Extrasolar Research Corporation di Pasadena, in California: insieme ai suoi colleghi stava studiando le immagini infrarosse raccolte da Hubble su un gruppo di protostelle formatesi recentemente nella costellazione del Toro. Ad un certo punto gli strumenti sofisticati del telescopio hanno messo in evidenza una bizzarra struttura filamentosa e particolarmente brillante lunga circa 130 miliardi di chilometri che unisce il candidato protopianeta a un sistema binario di stelle da cui probabilmente è stato espulso. Una sorta di tunnel aperto nello spazio profondo dal misterioso oggetto vagante nello spazio, che trasporta la polvere e i gas che circondano le due stelle da cui si è separato. L’osservazione di questa scia ha permesso di risalire alla posizione del pianeta, che è stato quindi “fotografato”.

Gli esperti della Nasa, l’agenzia spaziale statunitense, sono comunque piuttosto cauti. E questo perché occorrono ulteriori osservazioni per poter stabilire la vera natura di questo oggetto spaziale. Infatti, anche se l’ipotesi più convincente è che si tratti di un pianeta gigante gassoso, dalla massa pari a circa due-tre volte quella di Giove, il più grande pianeta del nostro sistema solare, ancora non si può escludere con certezza che si tratti invece di una nana bruna. Ossia una piccola stella dalla massa insufficiente per innescare la reazione di fusione nucleare che la fa “brillare”. Ma in questo caso la stella mancata dovrebbe essersi formata in tempi molto più remoti rispetto alle due stelle del vicino sistema binario. Alla Nasa ritengono invece molto più plausibile che l’oggetto sia un protopianeta gigante formatosi insieme alle due stelle circa 300mila anni fa e poi lanciato nello spazio interstellare alla velocità di circa 10 chilometri al secondo, alla deriva attraverso la Via Lattea.

La scoperta – se verrà confermata l’ipotesi del grande pianeta gassoso – rappresenterebbe una sfida ulteriore alle attuali teorie sulla nascita e l’evoluzione dei pianeti. Finora si riteneva infatti che ai giganti gassosi occorressero milioni di anni per coagulare tutta la polvere e i gas spaziali, almeno questo è quello che dovrebbe essere successo nel nostro sistema solare. In presenza invece di un sistema binario, le condizioni sono molto diverse, per cui è possibile che un pianeta si formi in tempi relativamente brevi da un punto di vista astronomico: solo qualche centinaio di migliaia di anni.

Alan Boss, astrofisico della Carnegie Institution di Washington, ritiene che i sistemi binari siano una sorta di nursery per i giovani pianeti. Le due stelle poste al centro del sistema planetario producono una instabilità gravitazionale che crea le condizioni adatte per far collassare rapidamente i gas e le polveri spaziali fino a formare un pianeta gassoso gigante. Ma non sono dei genitori premurosi: le stesse condizioni di instabilità gravitazionale, infatti, disturbano l’orbita del neo-pianeta che può quindi venirsi a trovare così vicino a una delle stelle da essere catapultato via. È lo stesso meccanismo sfruttato dalle sonde spaziali, comunemente denominato “effetto fionda”: passando vicino a una grande massa, gli oggetti nello spazio vengono attratti e possono acquistare abbastanza velocità da sfuggire nello spazio profondo.

Naturalmente al probabile pianeta è stato dato anche un nome, o meglio una sigla, TMR-1C. Quasi un patronimico, visto che il sistema binario della costellazione del Toro da cui si è originato è noto come TMR-1. Una fredda sigla dietro cui si cela però una delle scoperte più eccitanti per gli astronomi: la prima “istantanea” di un possibile pianeta extrasolare. Dal 1995 ad oggi infatti sono stati identificati otto pianeti esterni al nostro sistema solare, ma la ricerca è stata fatta utilizzando metodi di osservazione indiretta, cioè osservando gli effetti gravitazionali prodotti sulle stelle intorno a cui orbitano. Ma nessuno di questi era mai stato “fotografato”.

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