Guaritori contro il virus

Una patata contro l`Aids: così in Sud Africa si affronta l’infezione che, alla fine del 1997, ha portato a 30 milioni il numero dei sieropositivi in tutto il mondo, a un ritmo di 16 mila nuovi casi al giorno. E il 90% degli infetti si trova nei paesi in via di sviluppo e di questi oltre il 60% nel continente africano (21 milioni nella sola regione sud-sahariana). Mentre alla XII Conferenza annuale sull’Aids, che si tiene in questi giorni a Ginevra, si discute delle nuove prospettive terapeutiche e i ricercatori si interrogano sul modo per eradicare il virus dall’organismo infetto, in Africa si muore. Proprio così. L’accesso ai farmaci è praticamente impedito per la maggior parte dei malati, a causa del costo proibitivo delle complesse terapie (dai 6 ai 20 mila dollari l’anno) e il progresso in Aids conclamato è quindi inevitabile. E spesso l’unica cura disponibile è quella delle patate, antico rimedio della medicina tradizionale africana.

Quando si affronta la questione “paesi in via di sviluppo” si manifestano le due anime del Congresso. Tra medici e ricercatori occidentali che hanno lasciato in laboratorio il camice bianco per indossare giacca e cravatta, abbigliamento molto più adatto per la vetrina mondiale, si aggirano africani e asiatici, spesso nei loro abiti tradizionali, che rivendicano il diritto a essere curati. Se infatti gli 860 mila statunitensi o i 480 mila europei occidentali che sono stati infettati dal virus Hiv possono sperare di cronicizzare la loro malattia (la multiterapia ha protratto fino a venti anni la sopravvivenza dei pazienti), per la maggior parte dei sieropositivi dei paesi più poveri l’aspettativa di vita è di nuovo scesa ai livelli della metà del secolo: nei paesi africani più colpiti dall’infezione i malati di Aids muoiono intorno a 40 anni.

Ma lentamente le cose stanno cambiando. Tutto il congresso è votato appunto a colmare il divario tra il nord ricco e il sud povero. Bridging the gap è la parola d’ordine, costruire un ponte sul divario. Peter Piot, direttore esecutivo del programma speciale delle Nazioni Unite sull’Aids, sottolinea che ignorare il problema Terzo mondo è “non solo immorale, ma anche irrazionale, perché una pandemia come l’Aids può essere bloccata solo se il problema è affrontato su tutti i fronti”. E così dal 1986 è stato creato un programma di aiuti internazionali, che ora è sponsorizzato da 6 agenzie delle Nazioni Unite, tra cui l’Organizzazione mondiale della sanità, battezzato Unaids. Anche l’Unione europea ha varato un suo programma di aiuti umanitari che nel decennio 1987-97 ha stanziato 200 milioni di Ecu per interventi contro Hiv o Aids in 90 paesi in via di sviluppo e che per i prossimi anni prevede aiuti più sostanziosi, con cui finanziare anche molte associazioni non governative che operano direttamente sul territorio. Addirittura cinque tra le maggiori multinazionali farmaceutiche hanno dato vita a una iniziativa volta a garantire la possibilità di curare pazienti con farmaci antiretrovirali anche nelle aree più povere del mondo.

Ma nonostante tutto, questo spirito assistenzialista e umanitario non basta. I sieropositivi del sud del mondo hanno bisogno di cure e se la medicina convenzionale non può aiutarli, allora non resta altra alternativa che ricorrere alle terapie tradizionali. I curatori, quelli che il mondo occidentale definisce stregoni, depositari di un sapere tradizionale e rituale sono spesso l’unico conforto per la maggior parte dei malati dei paesi in via di sviluppo. E non si tratta di un semplice sostegno psicologico, da effetto placebo. La medicina tradizionale rivendica il proprio ruolo, accanto alle terapie convenzionali, e chiede credibilità da parte dei medici ufficiali, maggiore informazione e naturalmente la possibilità di sviluppare progetti adatti. Bisogna infatti fare i conti con la realtà sanitaria di questi paesi. Erick Gbodossou, medico senegalese, ricorda che la medicina ufficiale può materialmente raggiungere solo il 15% della popolazione africana. Al restante 85% non resta che rivolgersi alla medicina tradizionale. Ad esempio a Batick, in Senegal, è stato creato un centro in cui si riuniscono centinaia di “curanderos”, che collaborano con i medici ufficiali, per curare oltre 30 mila pazienti.

La situazione è ormai critica e finalmente anche il mondo occidentale ne è consapevole. Per questo la ricerca punta ormai su farmaci di natura diversa, molto meno costosi, con minori problemi di assunzione e capaci di salvare la vita a milioni di persone non solo nei paesi ricchi: dal tanto atteso vaccino terapeutico alle nuove combinazioni di farmaci diversi dagli attuali antiretrovirali. La sfida è aperta.

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