L’Onu ci riprova

“Non ci sarà un’altra Guerra alla Droga. Infatti, non ce ne è mai stata una”: così il 10 giugno scorso il segretario generale dell’Onu Kofi Annan ha suggellato l’adozione della Dichiarazione Politica dopo tre giorni di dibattito dell’Assemblea generale. Una esplicita ammissione del fallimento delle precedenti strategie che segna al tempo stesso l’inizio di un nuovo capitolo nella lotta agli stupefacenti. La comunità internazionale è come “un medico in lotta contro una malattia mortale”, ha spiegato Annan, perché “la droga, semplicemente, uccide le persone. E noi abbiamo il dovere di cercare una cura”. E così il “nuovo corso” promosso da Pino Arlacchi, l’italiano che dal settembre ‘97 è a capo del Programma antidroga delle Nazioni Unite (Undcp), ha ricevuto, non senza polemiche, il placet dell’Onu. Il suo piano è articolato: dimezzare la domanda di sostanze stupefacenti nel mondo industrializzato entro dieci anni e sradicare il più possibile nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo” la produzione di coca, oppio e marijuana.

Obiettivo ambizioso ma realistico, secondo il vicesegretario Onu, grazie anche a un clima politico internazionale più aperto alla collaborazione. Un obiettivo da raggiungere riconvertendo le colture di sostanze stupefacenti, creando un migliore sistema di leggi per combattere riciclaggio e paradisi fiscali, più interventi di vario tipo per ridurre la domanda e il numero dei tossicodipendenti nei paesi a rischio. Tutto questo al costo di tre-quattro miliardi di dollari. Una cifra che non dovrebbe stupire se si tiene conto degli enormi interessi in gioco (circa 400 miliardi di dollari all’anno è la stima del giro d’affari del narcotraffico) e dell’estensione dei territori coinvolti (500 mila gli ettari coltivati a oppio e a coca, dai 670 mila a un milione e 800 mila quelli a cannabis nel 1997, secondo stime Undcp), dai quali ogni anno si producono cinque mila tonnellate di oppio, 300 mila di foglie di coca e in media 500 mila tonnellate di hascisc e marijuana.

Eppure una spesa di 250-500 miliardi di dollari all’anno da qui al 2008 è parsa a molti fuori della portata dell’Onu, considerato che solo l’Italia e alcuni paesi europei si sono detti disposti ad aprire i cordoni della borsa. Per questo, appena conclusosi il vertice di New York, Arlacchi è andato a battere cassa alla Banca Mondiale, ottenendone, ha dichiarato il vicesegretario italiano, l’impegno a coprire al 75-80 per cento il costo del programma. Anche Bill Clinton ha promesso che gli Stati Uniti ‘’faranno la loro parte’’, ma il presidente Usa deve ancora vedersela con il Congresso e con le critiche che vengono dal fronte antiproibizionista. Uno schieramento, quest’ultimo, tra cui si distinguono il miliardario filantropo George Soros (che ha definito il summit un ‘’fallimento’’ e ‘’un brutto comizio per una brutta politica’’) e il Lindesmith Center, un istituto privato per la ricerca sulla droga, che, mentre si svolgeva il dibattito nel Palazzo di Vetro, ha comprato due pagine sul New York Times per pubblicare una protesta, sottoscritta da 500 tra personalità del mondo della politica e della cultura, contro la logica “iperproibizionista” che ha guidato, senza risultati sinora, tutte le campagne antidroga.

In effetti, negli anni ‘80-’90, a fronte di una escalation di misure repressive e di investimenti finanziari, il numero di consumatori di eroina è significativamente aumentato, soprattutto nei paesi asiatici, nell’Europa occidentale e in alcune parti dell’Africa e dell’America latina. Secondo calcoli dell’Undcp, in tutto il mondo questi sarebbero circa 8 milioni. Ammonta invece a oltre 13 milioni il numero di consumatori di cocaina, e a più di 142 milioni quello dei fumatori di hascisc. Per non contare i 25 milioni e mezzo di persone che assumono allucinogeni, i 30 milioni che si rivolgono ad anfetamine e affini e i quasi 300 milioni che abusano di sedativi.

I 500 firmatari dell’appello rivolto ad Annan – tra cui figurano Emma Bonino, Don Luigi Ciotti, Luigi Manconi, Stefano Rodotà, Giovanni Bollea, e Nobel come Milton Friedman, Gunther Grass, Rita Levi Montalcini, Perez de Cuillar, Fernado Savater, Dario Fo – chiedono senza mezzi termini l’apertura di un dibattito “onesto” e un’inversione di tendenza nelle politiche di riduzione del danno, rifiutando l’accusa di essersi arresi al problema. “Il vero arrendersi – affermano – è quando la paura e l’inerzia concorrono a strangolare il dibattito, a sopprimere l’analisi critica e a scartare a priori le alternative politiche attuali”. Come quella, per esempio, sostenuta da Gary S. Becker, allievo e collaboratore del Nobel per l’economia Milton Friedman, che individua nella legalizzazione di alcune droghe un possibile grimaldello per sconfiggere la criminalità organizzata. “I fatti sono di fronte a tutti”, ha dichiarato in un’intervista a Galileo, “il traffico di droga continua a crescere, e così il numero dei tossicodipendenti, che costituiscono circa la metà della popolazione carceraria degli Stati Uniti”.

L’economista ricorda che, da Nixon in poi, ogni presidente americano ha fatto roboanti dichiarazioni di guerra alla droga. Ma tutti, repubblicani e democratici, sono stati sconfitti. Secondo Becker – nei giorni scorsi di passaggio a Torino per una conferenza organizzata da “Dieci Nobel per il futuro”- è ora di pensare a un approccio radicalmente diverso e prendere seriamente in considerazione la legalizzazione di alcune droghe, anche se bisogna studiare in che modo attuarla per impedirne l’acquisto ai minorenni. “Forse ci potrebbe essere un aumento del consumo dovuto alla riduzione dei prezzi, e bisognerà pensare a mettere una tassa su queste vendite. In ogni caso – conclude – si ridurrà l’impegno oggi richiesto alle forze dell’ordine per contrastare il mercato nero della droga”.

Ma c’è chi invece coglie nel nuovo programma Onu positive novità. Secondo il professor Mario Baldassarri, docente di Economia politica nell’Università La Sapienza di Roma, si è capito finalmente che bisogna schiacciare gli enormi margini di profitto (secondo stime approssimative, circa il 30 mila per cento) che consentono ai narcotrafficanti di comprarsi la complicità anche di interi governi. Come? Facendogli concorrenza: “Bisogna comprare la droga dai contadini a un prezzo superiore di quello pagato dai trafficanti. Poi cominciare a dare gli incentivi per invogliarli a cambiare tipo di colture e impegnarsi a pagarne i raccolti a prezzi a loro vantaggiosi”. Il piano Arlacchi, secondo Baldassarri, andrebbe più o meno in questa direzione. Anche se rischia di fallire comunque, visto che non incide sull’altra povertà che, all’estremo opposto, contribuisce ad arricchire i trafficanti: i tossicodipendenti. Per questo, dice Baldassarri, bisognerebbe immaginare per loro un programma di recupero o anche di mantenimento, magari offrendo la possibilità di comprare la droga con ricetta medica in farmacia, in modo da strapparli al mercato. Non quindi una liberalizzazione, ma un monopolio pubblico del mercato della droga. “Ovviamente – spiega – deve essere una manovra globale, non ha molto senso che la si pratichi in solo in alcuni paesi. Perché c’è il rischio che sia una lotta contro una medusa: tagli una testa e ne spuntano altre cento. Poi magari se ne inventeranno un’altra, come dopo l’abolizione del proibizionismo dell’alcool: dopo vent’anni si sono messi a trafficare in sigarette e poi in droga. Ma per ridurre i danni alla collettività questa è l’unica strada praticabile”.

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