Scienza nello spazio, destinazione Alpha

Il conto alla rovescia è ormai agli sgoccioli. Dopo quasi quindici anni di discussioni, di progetti più volte modificati, di rinvii e di ricerche affannose di fondi, le prime componenti della nuova Stazione spaziale internazionale (nome in codice Alpha) verranno finalmente lanciate a novembre dalla base russa di Baikonur. Grande quanto un campo da calcio, in grado di ospitare un equipaggio permanente di sette astronauti, quando verrà completata, nel 2004, la nuova Stazione spaziale sarà l’oggetto più costoso mai realizzato dall’uomo. E fino ad allora monopolizzerà praticamente tutte le attività nello spazio. Ma oltre al più raffinato e complesso gioiello tecnologico mai costruito, Alpha sarà anche il più grande laboratorio scientifico extraterrestre di tutti i tempi e si è già aperta la gara per aggiudicarsi una parte del prezioso spazio che sarà a disposizione. Una gara in cui è impegnato il fior fiore della ricerca internazionale e che vedrà vincitori solo i progetti migliori e più competitivi. E anche molti ricercatori italiani sono della partita. Anzi, alcuni hanno già superato le qualificazioni e sono sicuri che i loro strumenti voleranno a bordo della Stazione. Altri invece sono ancora in lista d’attesa e la decisione definitiva arriverà solo dopo i risultati degli esperimenti preliminari a terra. Dallo studio del comportamento degli animali in assenza di peso, alle reazioni dell’organismo umano durante le lunghe missioni nello spazio, allo studio dei raggi cosmici e delle radiazioni galattiche per cercare gli ultimi segreti sulla nascita e l’evoluzione dell’universo, ecco aluni degli esperimenti più interessanti che si stanno mettendo a punto nei laboratori di casa nostra.

Con Ams a caccia dell’antimateria
Tra chi ha già un posto garantito sulla Stazione spaziale c’è il team di Ams (Alpha Magnetic Spectrometer), un magnete sofisticatissimo di tre tonnellate che cercherà di scovare due “grandi assenti” della fisica moderna: l’antimateria e la materia oscura. Quando è nato con il Big Bang, l’universo era costituito per metà dalla materia che tutti conosciamo e per metà da antimateria che, poi, è come svanita. Che fine ha fatto? Inoltre tutte le stelle, le galassie, i pianeti e le nebulose, che riusciamo a vedere sono appena un decimo della massa dell’universo, il resto è invisibile e misterioso. Di cosa è fatta questa materia oscura? L’Alpha Magnetic Spectrometer ha già ricevuto il suo battesimo dell’aria: dal 2 al 12 giugno ha raccolto i primi dati a bordo di uno Shuttle con un successo tale che già si parla di un’altra missione nel 2000, prima della definitiva installazione sulla Stazione nel maggio del 2002. “In dieci giorni abbiamo collezionato più dati che in 40 anni di esperimenti ”, afferma entusiasta Roberto Battiston, fisico che si divide tra l’Università e l’Infn di Perugia, il Cern di Ginevra e la Nasa, responsabile della parte italiana del programma, “ma è sulla stazione, dove resterà circa 3 anni, che Ams darà il massimo e raggiungerà una sensibilità 100 mila volte più alta degli strumenti attuali”. All’avventura, nata in gran parte nei laboratori dell’Instituto nazionale di fisica nucleare e delle università di Perugia, Bologna e Milano, partecipano diversi altri paesi, tra cui la Germania, la Svizzera, gli Stati Uniti e, caso più unico che raro, sia la Cina che Taiwan, per una volta unite sotto la bandiera della scienza.

Un’antenna per Sport
Tutto italiano è invece Sport, cioè Space Polarization Observatory, sotto la guida del radioastronomo bolognese Stefano Cortiglioni. Si tratta di una “super antenna” da circa 10 miliardi, pagati in gran parte dall’Agenzia spaziale italiana (Asi) e da quella europera (Esa), che dovrà captare le radio-onde emesse dalla nostra galassia. Sport servirà soprattutto per misurare la componente polarizzata di queste radiazioni e i suoi dati permetteranno ai cosmologi di approfondire le conoscenze sulla cosiddetta emissione di fondo cosmico. I ricercatori dell’Istituto di tecnologie e studio delle radiazioni extraterrestri del Cnr di Bologna che lo hanno costruito assieme ai colleghi delle università di Milano, Firenze e del Politecnico di Torino sono dei veterani delle imprese spaziali. Dalle loro mani è uscito anche un altro fiore all’occhiello della scienza italiana, quel satellite Beppo-Sax che nei mesi scorsi ha innondato gli astrofisici di nuovi e interessantissimi dati sull’origine dei misteriosi “lampi” di raggi gamma provenienti dall’esterno della galassia. Grazie a queste credenziali di tutto rispetto, Sport si è assicurato un posto su una delle piattaforme di volo dell’Esa. Lancio previsto per il 2001.

Con il cervello sottosopra
Volo quasi garantito anche per l’esperimento proposto dal gruppo di Francesco Lacquaniti, neurologo dell’Istituto di riabilitazione e cura per i disturbi neurologici S. Lucia di Roma e dell’Università “Tor Vergata”. Anche Laquaniti e colleghi non sono “novellini” dello spazio: ricordate il Neurolab, meglio noto come “Shuttle di Noé” per aver accompagnato in orbita nei mesi scorsi alcune migliaia di bestiole tra topolini, grilli, lumache, girini e pesci? Uno degli esperimenti, condotto però sugli astronauti, era loro e serviva a capire come si adatta il cervello all’assenza di peso. “Nello spazio la coordinazione dei movimenti in base a ciò che vediamo, sentiamo o tocchiamo entra in crisi”, spiega Lacquaniti, “nei primi giorni, prima che il cervello si abitui, gli astronauti soffrono di nausea, capogiri e mostrano problemi di orientamento, sintomi molto simili a quelli di alcuni pazienti che hanno subito traumi cerebrali”. Ed ecco il punto: ciò che si apprende nelle condizioni estreme di un laboratorio a 407 chilometri di quota potrebbe servire per curare dei pazienti qui sulla Terra.

Figli delle stelle
Se gli uomini patiscono qualche capogiro, assai peggio è andata invece proprio ai topolini del Neurolab: molti di loro sono morti perché le loro madri, dopo averli partoriti in orbita, rifiutavano di allattarli. Che tanta disattenzione materna sia un’altra colpa dell’assenza di peso? E’ ciò che cercherà di stabilire il gruppo di Enrico Alleva, etologo dell’Istituto superiore di sanità, e di Luigi Aloe, collaboratore di Rita Levi Montalcini all’Istituto di neurobiologia del Cnr di Roma, con il contributo dell’Università di Genova. Ma per le loro cavie il destino dovrebbe essere assai più roseo. “Le nostre topoline avranno delle cucce molto confortevoli, dove aver cura dei loro piccoli, anche se questi galleggiano a mezz’aria senza peso rendendo più difficile il contatto fisico diretto che sulla Terra stimola l’allattamento”, racconta Alleva. “E vogliamo poi che i cuccioli nati in orbita rientrino in buona salute per vedere come si adattano alla novità del peso”. Tra un paio d’anni si conosceranno i risultati preliminari, poi il passo alla Stazione spaziale potrebbe essre breve.

Agricoltura d’alta quota
Chi ha detto che gli astronauti impegnati per lunghi anni nello spazio, magari dentro una capsula in viaggio verso Marte, debbano per forza nutrirsi sempre di hamburger liofilizzati, insalata disidratata e beveroni vitaminici? Perché non sperimentare degli “orticelli spaziali” dove coltivare verdure decisamente più appetitose che affianchino le solite pilloline? Oltretutto le piante producono il prezioso ossigeno, e al contempo ripuliscono l’aria dall’anidride carbonica, filtrano l’acqua e utilizzano i rifiuti organici come concime. L’idea è di un gruppo di biologi e agronomi dell’Università Federico II e della Seconda Università di Napoli coordinati da Amalia Virzo De Santo che ha in programma la costruzione di una serra ipertecnologica dove crescere piantine di spinacio. E se gli esperimenti saranno incoraggianti si proverà anche con i fagioli e altre piante commestibili.

Piccole cellule crescono
Non è ancora un posto in prima fila sull’agognata Alpha, ma c’è molto vicino. Perché l’esperimento proposto dall’équipe di medici, biologi e chimici guidata da Ranieri Cancedda, del Centro di biotecnologie avanzate di Genova, nello spazio ci andrà comunque, per cominciare con un volo preliminare sullo Shuttle, nel 2000. Si tratta di coltivare in orbita alcune cellule del midollo osseo, da cui si sviluppano poi le ossa e la cartilagine, per capire meglio l’effetto della prolungata assenza di peso su questi tessuti. Sono esperimenti che di solito richiedono manipolazioni piuttosto delicate che, in questo caso, verranno completamente affidate a un robot. E chissà che uno strumento del genere non torni utile anche nei laboratori terrestri dove i ricercatori hanno a che fare con virus e batteri pericolosissimi. Perché è vero che i laboratori spaziali ci volano centinaia di chilometri sopra la testa, ma non bisogna dimenticare che devono servire a migliorare la nostra vita. Quaggiù, sulla Terra.

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