Cellule suicide con survivin

Anche le cellule che compongono il corpo di un animale, e dell’uomo, possono suicidarsi. Lo fanno per il bene dell’organismo, perché sono alterate o perché la loro scomparsa è necessaria per garantire l’armonia fra le varie parti del corpo. A volte però il suicidio non viene messo in atto quando dovrebbe, o si verifica quando non dovrebbe. Il risultato di questo mancato suicidio è la comparsa di gravi malattie come il cancro o il morbo di Alzheimer.

Ora però una nuova scoperta, pubblicata il 10 dicembre scorso su Nature, apre prospettive inedite per la cura di queste malattie, segnando un punto di svolta nello studio dei meccanismi che regolano il suicidio cellulare e del modo in cui questi possono fallire. La ricerca, condotta da Dario Altieri, del centro di medicina molecolare dell’università di Yale, nel Connecticut, e da Pier Carlo Marchisio, del dipartimento di ricerca biologica e tecnologica dell’Istituto San Raffaele a Milano, ha portato a individuare una proteina, che è stata prontamente denominata “survivin”, dall’inglese “sopravvivenza”. Quest’ultima funzionerebbe da “corpo di guardia”, evitando che si suicidino cellule destinate a vivere ma spingendo alla morte quelle che debbono essere eliminate.

Il suicidio cellulare viene detto apoptosi, un nome derivato dal greco e che significa “caduta delle foglie”. Agli scienziati che per primi osservarono il fenomeno infatti la scomparsa di queste cellule aveva ricordato l’immagine di foglie che in autunno si distaccano dai rami.

Per quanto possa sembrare drammatica, l’apoptosi è un evento del tutto normale, anzi è necessaria per la sopravvivenza di un individuo. Nel nostro corpo avvengono 25 milioni di divisioni cellulari al secondo. Da ogni divisione deriva una nuova cellula e, se quelle anziane o malate non venissero eliminate, il volume del corpo aumenterebbe a dismisura. Anche nello sviluppo embrionale l’apoptosi svolge un ruolo cruciale, modellando il corpo che si sta formando. Ad esempio le dita del feto si separano perché le cellule che le univano si suicidano.

Fondamentale è poi il ruolo del suicidio cellulare nell’eliminazione di cellule che potrebbero innescare una malattia. Infatti, quando una cellula si comporta in modo anomalo e i suoi meccanismi di riparazione non bastano a ripristinarne la piena efficienza, essa decide di autoeliminarsi. Se non lo facesse, il difetto di cui è portatrice potrebbe estendersi a tutta la sua discendenza e eventualmente alle cellule vicine, con il rischio di causare gravi danni all’intero organismo.

Una cellula che si suicida, insomma, non fa altro che mettere in atto una serie di meccanismi chimico-molecolari, che essa controlla perfettamente e che sono volti a distruggerla senza interferire con la vita delle vicine sane. Contemporaneamente, speciali enzimi distruggono il suo Dna, tagliandolo in pezzetti proprio come un tempo facevano industrie e servizi segreti per eliminare i documenti che dovevano restare riservati. Infatti la causa che ha spinto la cellula al suicidio spesso è proprio un danno al materiale genetico, quindi sarebbe molto rischioso se la cellula morendo liberasse, a portata di altre cellule, frammenti di Dna abbastanza lunghi da avere un senso.

La morte per apoptosi dunque è programmata in modo che la cellula sparisca senza far danni. Una cosa totalmente diversa è la morte per necrosi, che si verifica quando la cellula subisce una alterazione tanto seria da non essere neppure in grado di suicidarsi. In questo caso essa muore improvvisamente, e i suoi frammenti si spargono nel tessuto circostante, causando infiammazioni.

L’apoptosi è dunque una delle principali difese a disposizione dell’organismo per combattere i tumori. Il primo passo verso queste malattie è infatti un danno al Dna di una cellula, che la porta a perdere il controllo della sua velocità di replicazione e a duplicarsi ininterrottamente. Quando un fenomeno del genere si verifica senza che la cellula possa porvi riparo, si innescano i meccanismi che la portano al suicidio. Autoeliminandosi, la cellula evita i danni che deriverebbero all’organismo se essa producesse una massa tumorale.

“Proprio nella fase di divisione cellulare entra in atto survivin”, spiega Pier Carlo Marchisio. “Se tutto si svolge regolarmente, la proteina impedisce che la cellula si suicidi. L’apoptosi infatti è sempre pronta ad attivarsi, a meno che non siano in funzione i meccanismi della cellula che la tengono bloccata. Tuttavia, se a causa del danno genetico la cellula ha perso il controllo della sua riproduzione, è la stessa survivin a dare il via al suicidio”.

Gli scienziati sono anche riusciti a localizzare il momento e il punto della cellula dalla quale survivin esercita i sui effetti. La proteina infatti sarebbe attiva a partire dai momenti che precedono la mitosi, ovvero quella fase della divisione cellulare nella quale, terminata la duplicazione del proprio materiale genetico e delle proprie componenti fondamentali, la cellula si scinde in due, generando una figlia identica a se stessa. Survivin si troverebbe legata a strutture dette microtubuli, la cui funzione è agganciare i patrimoni genetici, costituiti da due corredi completi di cromosomi, e “tirarli” letteralmente verso due estremi opposti della cellula, lontano dal punto centrale dove si verificherà la strozzatura che separerà la cellula madre dalla figlia. “La localizzazione di survivin sui microtubuli è provata dai nostri esperimenti”, spiega Marchisio, “infatti distruggendo queste strutture l’azione di survivin non è più osservata”.

Nelle cellule tumorali però le cose non vanno per il verso giusto: “I problemi si creano quando, a causa di qualche alterazione, survivin viene prodotta in eccesso”, continua Marchisio. “In queste condizioni la proteina non è più in grado di innescare il suicidio cellulare anche se la cellula si divide in modo incontrollato. Ed è in questi casi che si può andare incontro alla formazione di un tumore”.

La scoperta naturalmente apre nuove prospettive nella cura del cancro. “Stiamo studiando due possibili strategie, volte a ripristinare una quantità normale di survivin”, continua Marchisio, “in primo luogo potremmo agire direttamente sul gene che produce survivin: questo potrebbe essere inibito, in modo che la proteina non venga più prodotta in eccesso, o alterato, in modo che venga prodotta una versione di survivn inattiva. La strada più semplice, però, potrebbe essere mettere a punto un farmaco che agisca direttamente su survivin, impedendole di svolgere la sua azione. Il problema, in questo secondo caso, è però riuscire a creare un farmaco attivo solo sulla proteina prodotta dalle cellule tumorali, e non su quella presente nei tessuti sani. Tuttavia, nonostante i risultati sembrino incoraggianti, né io né il mio collega Altieri prevediamo applicazioni cliniche della nostra scoperta in tempi brevi.”

I tumori non sono le sole patologie connesse con una deregolazione dell’apoptosi. Ad esempio la morte delle cellule del cervello, che è alla base dei devastanti danni del morbo di Alzheimer, è dovuta a suicidi messi in atto da cellule destinate a vivere. Conclude Marchisio: “Naturalmente scoprire il ruolo svolto da survivin nell’Alzheimer e in altre malattie promette di essere molto interessante, e contiamo di studiare questi aspetti nel futuro”.

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